Il podcast su Spreaker
Dialoghi abolizionisti: ecco perché superare il carcere
Il podcast è ideato dal Master in Criminologia critica e sicurezza sociale dell’Università di Padova e di Bologna, ed è disponibile sulla piattaforma Spreaker. Tra le voci quelle di Patrizio Gonnella, Stefano Anastasia, Luigi Manconi, Valentina Calderone e di tanti altri esperti
Giustizia - di Ludovica Cherubini Scarafoni
La necessità di divulgazione pubblica di un tema relegato ai margini può palesarsi in molti modi. Uno di questi si sostanzia in Dialoghi Abolizionisti, un podcast uscito sulla piattaforma Spreaker e ideato dal Master in Criminologia critica e sicurezza sociale dell’Università di Padova e di Bologna, in particolare dagli studiosi Giuseppe Mosconi, Alvise Sbraccia, Francesca Vianello ed Elton Kalica. Già dal titolo, emerge la volontà di dar vita ad una rete di riflessione aperta che, a partire dal coinvolgimento di molte voci – come Patrizio Gonnella, Stefano Anastasia, Dario Melossi e altri esperti -, conduca il tema del superamento del carcere e tutto ciò che concerne la cosiddetta questione criminale fuori dai confini di una nicchia ristretta, a favore dell’urgente realismo che questi temi portano con sé.
A fronte della complessità del tema che attraverso questi dialoghi si vuole mantenere più viva che mai, emergono visioni e pratiche molteplici che legittimano la declinazione plurale del termine abolizionismo. Fuori dalle differenze, tuttavia, risulta solidamente una comunanza di sguardi che funge da filo rosso. Da un lato, rispondente ai bisogni che la storia del carcere, nonché la sua condizione presente, fanno emergere, dall’altro, apripista di una prospettiva ampia che supera i confini del penale. Partendo dal disallineamento tra diritto formale e sostanziale, risulta senza mezzi termini che limitarsi alla proposta di un carcere migliore non basta. Se guardiamo al contesto penitenziario, infatti, ciò non può che palesarsi nella contraddizione tra le forme e il funzionamento dell’istituzione e il proposito rieducativo costituzionalmente previsto.
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Per questo, fare spazio all’abolizionismo significa mutare le condizioni, posizionarsi fuori da un linguaggio repressivo diffuso che guarda al carcere, e al penale in generale, come armi predilette di risoluzione di problemi sociali, in nome di un’egemonica sicurezza che come feticcio risulta piuttosto coincidente con gli interessi di pochi, a scapito dei bisogni di tutte e tutti. Nella pervasività sociale del binomio manicheo tra bene e male, che il crescente ricorso al penale catalizza, emerge la necessità di decostruire le categorie e gli strumenti attraverso i quali si risponde ai bisogni dell’intera società, allontanandosi dalla permanente ricerca di un capro espiatorio che trova nei marginali la destinazione preferenziale. Destinazione che si esprime come strutturale negazione di diritti che, per la natura stessa della pena carceraria, non possono che finire subordinati, relegati ad uno spazio residuale – come afferma la Prof.ssa Vianello nel suo intervento. Il suo funzionamento pratico, infatti, non ci permette di prescindere dal porsi l’interrogativo di “rieducare a che cosa?” se non ad un sistema valoriale, etico e morale, che sempre più attraversa gli spazi del penale, alimentando, con un intento primariamente simbolico, il controllo e la disciplina a scapito di una responsabilizzazione diffusa.
In questo senso, i diritti rischiano di divenire concessione e la pretesa della persona ristretta accondiscende l’interesse istituzionale, presentandosi piuttosto come conformazione ad un modello imposto, fuori da quell’uguaglianza sostanziale costituzionalmente prevista che permette di resistere ad un’omologazione sociale, dove le differenze soccombono. Ecco che l’abolizione prende forma scostandosi da categorie a cui si è genericamente socializzati. Non a caso, un processo decostruttivo non può che iniziare focalizzandosi sulla natura artificiosa del reato. Ciò permette di comprendere che esso non è che il prodotto di scelte di criminalizzazione, che, contro la dichiarata pretesa preventiva, finiscono per produrre e riprodurre condotte etichettate come criminali, specchio di una selettività arbitraria che, animata da un disagio diffuso, non fa che esprimere le asimmetrie di potere all’interno della società.
Basta guardare alle caratteristiche della popolazione detenuta per averne la conferma e per comprendere la declinazione sostanziale delle politiche penal-securitarie, dimostrative di un ripensamento delle condizioni presenti quanto meno realistico se quegli spazi venissero occupati da strumenti di sicurezza sociale. In questo senso, l’abolizionismo porta con sé un intento costruttivo che le pratiche proposte da questi dialoghi esprimono, tenendo fermi i capisaldi di uno sguardo comune che non può prescindere dalla volontà e responsabilità politica di dar vita ad una società diversa.