L'ex presidente della Camera

Intervista a Laura Boldrini: “Non c’è pace senza giustizia per i palestinesi, giù le mani dalla Corte dell’Aja”

La deputata dem è reduce da un incontro alla Corte penale internazionale con i vertici dell’istituzione che «Portano avanti con grande determinazione il loro lavoro, nonostante siano oggetto di una campagna di delegittimizzazione e di intimidazione»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

17 Dicembre 2024 alle 07:00

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Photo credits: Andrea Di Biagio/Imagoeconomica
Photo credits: Andrea Di Biagio/Imagoeconomica

Laura Boldrini, già Presidente della Camera, parlamentare Dem e Presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo: “Dati Unicef: accertati almeno 14mila bambini uccisi dall’esercito israeliano”. Così questo giornale apriva, unico in Italia, la prima pagina di venerdì 13 dicembre. Onorevole Boldrini, a Gaza è in atto un genocidio e il mondo sta a guardare.
A Gaza è in corso una catastrofe che non ha uguali nelle modalità crudeli in cui si sta sviluppando. Nessuno può mettersi in salvo, nessuno può scappare via dai bombardamenti indiscriminati dell’esercito israeliano perché Gaza è una striscia sigillata da cui non si esce e in cui non si entra. Gli aiuti umanitari, stipati nei convogli, restano infatti fuori dai valichi perché le autorità israeliane ne impediscono l’accesso. Questa situazione disumana causa la morte di migliaia di persone innocenti, uccise dalle bombe, uccise dalla fame, uccise dagli stenti, uccise dalla mancanza di cure. Uno sterminio calcolato e voluto. I pochi aiuti che entrano sono presi d’assalto dalla popolazione disperata e stremata, mentre l’esercito israeliano resta immobile a guardare. Di fronte a tutto questo, tranne poche eccezioni, i grandi del mondo non condannano, non mostrano sdegno, non mettono in campo misure sanzionatorie, ma balbettano mentre le piazze si riempiono di gente normale che protesta perché non tollera più questo massacro. E anche Giorgia Meloni, per non irritare il suo alleato Bibi Netanyahu, resta muta. Giovedì scorso, alla Camera dei Deputati, abbiamo tenuto una conferenza stampa che ha visto insieme 5 organizzazioni che hanno lanciato degli appelli per Gaza. Parliamo di Oxfam, Medici senza frontiere, Emergency, i promotori di #StopCrimesInPalestine e l’associazione “Fermatevi!”. Complessivamente sono state raccolte oltre mezzo milione di firme di persone che chiedono il cessate-il-fuoco, l’ingresso libero e incondizionato di aiuti e beni di prima necessità, e il rispetto del diritto internazionale. Firme che il 25 novembre sono state sottoposte alla presidente Meloni con una lettera in cui si chiedeva di essere ricevuti perché chi lavora a Gaza potesse illustrarle la drammaticità di quanto sta accadendo nella Striscia. Ma la presidente del Consiglio non solo non ha ritenuto di ricevere i promotori degli appelli e gli operatori umanitari, ma neanche di rispondere alla lettera. Un atteggiamento di indifferenza e puro cinismo che dimostra tutta la sua noncuranza verso questa strage sistematica di anziani, donne e bambini colpevoli solo di essere palestinesi. E se già era orribile la decisione di Biden di continuare a mandare armi a Israele – scelta che ha influito negativamente anche sulla sorte elettorale di Kamala Harris – ora che a guidare gli Usa ci sarà Trump le cose non possono che peggiorare, dato che già durante il primo mandato aveva spostato l’ambasciata statunitense a Gerusalemme, dandole legittimazione di capitale, e che nell’ultimo anno ha più volte manifestato il suo sostegno a Benjamin Netanyahu nel portare avanti il suo “lavoro” sia a Gaza sia in Cisgiordania, dove è in corso una vera e propria annessione dei territori palestinesi.

Lei è reduce da un incontro all’Aja con i vertici della Corte penale internazionale e con chi sta gestendo il dossier Palestina. Ci può essere giustizia per i palestinesi?
Ci deve essere giustizia per i palestinesi, perché senza giustizia non potrà esserci neanche pace. I procuratori, i giudici, gli avvocati e le avvocate della Corte portano avanti con molta determinazione il loro lavoro su diversi casi internazionali, tra cui la Palestina. Questo nonostante oggi siano oggetto di una fortissima campagna di delegittimazione e di intimidazione e vivano in una condizione di assedio. La Corte è sotto attacco non solo da parte di autocrazie, ma purtroppo anche di alcune democrazie. Se le sanzioni minacciate da Israele e dagli Stati Uniti dovessero essere messe in atto sarebbe la fine della Corte perché verrebbe considerata al pari di uno “stato canaglia” con cui per altre istituzioni, aziende, banche e altri soggetti sarebbe impossibile collaborare senza incorrere loro stesse in ulteriori sanzioni. Un colpo letale. Per questo è il momento di fare quadrato intorno alla Corte e di mettere in atto interlocuzioni istituzionali con il Governo e il Congresso statunitensi per scongiurare un simile attacco che metterebbe in pericolo la giustizia internazionale senza la quale si ritornerebbe indietro di 80 anni e rimarrebbero solo la legge del più forte e la barbarie. Quello a cui assistiamo è uno stravolgimento totale degli assetti mondiali. Le stesse democrazie del cosiddetto “Occidente” che hanno dato vita alla Cpi come strumento di garanzia dei principi del diritto internazionale a tutela dei civili durante i conflitti, affinché anche in guerra le regole vengano rispettate, adesso non ne difendono l’autonomia e l’indipendenza come sarebbe necessario. Né agiscono per disinnescare l’attacco statunitense che potrebbe decretarne la fine. Questa deriva va fermata prima che sia troppo tardi.

Per crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati in Ucraina, Vladimir Putin è passibile di arresto nei paesi che riconoscono la Cpi, oltre che negli Stati Uniti. Netanyahu, no. Il doppio standard? L’Italia è tra i Paesi che riconoscono la Cpi, eppure non è intenzionata ad eseguire il pronunciamento della Corte. Che segnale è?
Evidentemente siamo di fronte a un doppio standard. Quando la Corte penale internazionale emise il mandato di arresto nei confronti di Putin nessuno sollevò obiezioni, anzi. Perfino gli Stati uniti che non aderiscono alla Cpi diedero disponibilità a collaborare. Quando invece la stessa Corte ha emesso lo stesso mandato nei confronti di Netanyahu, non abbiamo visto reazioni simili.
L’Italia non solo riconosce la Corte penale internazionale, ma è il Paese in cui è stato firmato lo statuto da cui la Cpi è nata. Eppure, non è chiara la posizione che il governo Meloni intende assumere nei confronti del mandato di arresto emesso contro Netanyahu. Il ministro Crosetto ha detto che lo statuto di Roma va rispettato, il ministro Salvini dice che il premier israeliano sarebbe “il benvenuto” in Italia, mentre il ministro degli Esteri Tajani dice che bisogna “vedere le carte perché non può essere una decisione politica”. E la presidente Meloni? Tace. Ma non c’è nulla da vedere e valutare. Il lavoro della Corte è giuridico, non politico. E l’Italia, in quanto Stato che aderisce alla Cpi ha l’obbligo di dare seguito alle sue decisioni. Non può opporre valutazioni politiche ad un atto giuridico. Questo atteggiamento ambiguo del governo manda un segnale assolutamente preoccupante, proprio in un momento in cui la Corte avrebbe bisogno di avere un sostegno pieno all’importante lavoro che sta svolgendo. E se non arriva dal paese che tanto si adoperò per l’istituzione di questo organismo giurisdizionale e dove è stato firmato il suo atto di nascita, da chi altri dovrebbe arrivare?

Altro tema caldo, molto a cuore a l’Unità, è quello dei migranti. Con articoli e inchieste questo giornale ha documentato la complicità delle autorità italiane con la cosiddetta “guardia costiera” libica nei respingimenti forzati in mare. Poi c’è il flop Albania: centinaia di milioni sperperati, mentre continuano i tagli alla cooperazione internazionale.
L’immigrazione è la più grande ossessione del governo Meloni e anche il suo più grande fallimento. Dopo avere fatto una lunga sfilza di decreti che mirano a smantellare completamente il sistema d’asilo e d’accoglienza, a rendere la vita dei migranti un percorso ad ostacoli e a mettere fuori gioco le ong che salvano vite umane in mare, la presidente del Consiglio ha voluto fare questo coup de théâtre coinvolgendo l’Albania che ha tutto l’interesse di dimostrarsi collaborativa con un Paese dell’Ue, data la sua ambizione a farne parte. I centri di Gjader e Shengjin, dove sono stata qualche settimana fa, sono davvero spettrali. Dentro ci sono solo forze dell’ordine e operatori dell’ente gestore che non hanno nulla da fare. Tant’è che alcuni sono stati fatti rientrare in Italia. Un immenso spreco di risorse pubbliche per una fallimentare campagna di propaganda che doveva far credere alle italiane e agli italiani che nessun migrante sarebbe mai più sbarcato sulle nostre coste. Una colossale bufala. Da fine agosto ad oggi, hanno conosciuto questi centri meno di 30 migranti e solo per poche ore dato che i giudici non hanno convalidato il loro trattenimento e quindi sono stati subito trasferiti in Italia. E non poteva essere diversamente dopo la sentenza della Corte europea di giustizia del 4 ottobre e la direttiva europea 32 del 2013. Davanti al flop annunciato il governo ha reagito con una pesante campagna denigratoria nei confronti dei giudici, non accettabile in una democrazia fondata sulla separazione dei poteri. I toni si sono alzati talmente tanto che alcuni di quei giudici ora vivono sotto scorta a causa della gogna scatenatagli contro da esponenti del governo. Per non parlare dei costi esorbitanti per questi due centri che al massimo potrebbero ospitare 3mila persone al mese. Un numero del tutto irrilevante se si pensa che lo scorso anno sono arrivate in Italia oltre 150mila persone. Ben 800 milioni per due centri vuoti, soldi che si sarebbero potuti investire per i bisogni reali delle italiane e degli italiani, a cominciare dalla sanità pubblica, dalla scuola e dall’università.

Cosa ha provato nel leggere la testimonianza di uno dei carnefici di Giulio Regeni: “Finalmente l’abbiamo preso: lo abbiamo fatto a pezzi, lo abbiamo distrutto. Io l’ho colpito”. L’Egitto di al-Sisi è considerato dal governo italiano un Paese sicuro, amico. Non c’è da vergognarsi?
Ogni volta che emergono nuovi dettagli sulla tragica morte di Giulio Regeni, il mio pensiero va alla famiglia costretta a ripercorrere questo calvario crudele e terribile. Definire l’Egitto “paese sicuro” non è solo falso. È un’offesa alla famiglia Regeni e alle famiglie di quelle decine di migliaia di persone detenute ingiustamente nelle carceri egiziane perché attivisti, perché oppositori politici, perché difensori dei diritti umani. Dire che l’Egitto è un paese sicuro visto che gli italiani ci vanno in vacanza è un grossolano paradosso. In nome del contenimento dei flussi migratori, Meloni è disposta a fare e dire qualsiasi cosa, anche a siglare un patto col diavolo. L’abbiamo perfino vista riaprire l’ambasciata a Damasco ben prima della caduta del dittatore Assad e solo come preludio a dichiarare anche la Siria “paese sicuro” al fine di rispedire indietro chi scappava da quel sanguinario regime. Quindi sì, c’è da indignarsi e vergognarsi quando il governo italiano parla dell’Egitto come di un “Paese sicuro”.

17 Dicembre 2024

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