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È morto Marcello Rosa: il dandy pioniere del jazz in Italia

Foto da Facebook

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La notte scorsa è morto per improvviso attacco cardiaco, a quasi novant’anni, Marcello Rosa, uno dei pionieri del jazz italiano, già attivo a metà degli anni 50. Un dandy del jazz, un raffinato “trombonista errante” che ha suonato con tutti i grandi, ma – voglio dirlo subito – per me un amico fraterno e un involontario maestro zen che, potrei dire, ha sciacquato i panni nel Mississippi.

Come descriverlo? Amabilmente intrattabile, sempre un po’ in urto col mondo – perciò dal mondo un poco emarginato – ma capace di uno stupore adolescente. Severo moralista – detestava l’approssimazione – e però autoironico e dotato di un senso dell’humour irresistibile (era un giocoliere della lingua: uno dei suoi ultimi pezzi si intitola Nel blues dipinto di blues, altri suoi celebri sono Balla con Depero, Fu-turismo o Mon ravel, anagramma del classico jazz Lover man). Politicamente inappartenente, ma messo alle strette si definiva “anarco-monarchico”. La sua etica consisteva in un amore geloso per “il lavoro ben fatto”, sia esso un arrangiamento musicale, una locandina per un concerto (aveva il dono del disegno) o la costruzione di un tavolo. In ogni cosa che faceva riconosco un personalissimo “Marcello’s touch”: lieve, mai retorico, e affabilmente aristocratico.

Solo qualche cenno biografico. Nato ad Abbazia (Fiume) nel 1935. Ha sempre vissuto a Roma, dove a cinque anni iniziò lo studio del pianoforte, passando poi alla chitarra classica e infine al trombone, con cui ha debuttato, diciannovenne, nel 1954. Protagonista storico del jazz in Italia, trombonista, compositore, arrangiatore, autore e conduttore di programmi radiotelevisivi, appassionato divulgatore di questo genere. Ha partecipato, con i suoi gruppi o come solista ospite, a concerti, rassegne, festival nazionali e internazionali, seminari, registrazioni discografiche, colonne sonore e commedie musicali.

Ha suonato a fianco di autentiche leggende della storia del jazz come Lionel Hampton, Earl Hines, Albert Nicholas, Trummy Young, Milton Jackson, Peanuts Hucklo, Bud Freeman, Buck Clayton, Billy Butterfield, Yank Lawson, Tony Scott, Kai Winding, Slide Hampton, Curtis Fuller, Bob Burgess, Al Grey, George Masso, Bill Watrous, John Mosca, Gary Valente, oltre ai più importanti musicisti italiani. Ha lavorato con personaggi e gruppi della musica pop come Rocky Roberts, Little Tony e i Flippers, ma solo quando occorreva una “pronuncia” jazz. Ha collaborato tra l’altro con Trovajoli, Bruno Canfora, Gianni Ferrio, Ennio Morricone, Piovani, Piero Piccioni. Ha realizzato 10 cd, di cui l’ultimo – The world on a slide – nell’estate (estate 2020). Autore di testi per la Rai e conduttore radiofonico al 1968 al 1995.

È autore del libro Amari accordi (Arcana, 2014, postfazione di Vincenzo Martorella): memoir, saggio, pamphlet, racconto di una vita e di una passione. In primavera ne uscirà una riedizione ampliata ma sempre “scorretta”, come aggiungeva. Ha insegnato trombone e musica d’insieme presso il Saint Louis College of music, il Musica workshop e il Mississippi jazz club, ma anche all’Istituto Paisiello di Taranto. Ha vinto innumerevoli premi. Provo a definire il suo stile musicale al trombone: personalissimo e inconfondibile, attinge in modo profondo – come è stato osservato – al jazz tradizionale ma con guizzi improvvisi nella modernità (e in altri generi, dal calypso al funky) e distensioni creative di grande carattere.

Sentiva un solo obbligo: non annoiare mai! Provvisto di un suono ruvido, scuro, lieve e insieme di forte tensione espressiva, ha sempre trovato nelle sonorità blues il veicolo più congeniale per tradurre in musica le proprie emozioni. Come compositore ha cercato di fondere gusto della ricerca, della contaminazione (anche spiazzante: sarebbe un errore confinarlo nel dixieland, genere di cui pure era un sottile conoscitore) con il piacere di trasmettere una musica “bella”, che anzitutto piacesse a lui stesso, sapendo, con il suo amato Duke Ellington (che una volta ebbe occasione di presentare al Piper!), che tutta la musica ha solo due generi: o è bella o è brutta.

Sono state suggerite varie bipartizioni dell’umanità, tutte in qualche modo legittime: uomini e caporali (Totò), contadini e luigini (Carlo Levi), uomini e no (Vittorini). Pensando a Marcello Rosa me ne viene in mente un’altra possibile: burocrati e ribelli. Ecco, lui è stato certamente un conservatore, alieno da gesti plateali di rivolta, nemico di trasgressioni ed esibizionismi. Ma non sopportava anzitutto i “burocrati”: della musica, dell’arte, dell’immaginazione, della vita stessa. Mentre lui nell’animo è sempre stato un vero ribelle.