Il processo di Palermo
Cosa significa l’assoluzione di Salvini e perché non è una licenza di impunità
Le reazioni entusiaste secondo cui la difesa dei confini nazionali non è mai un reato, per cui d’ora in poi si può applicare ai migranti lo stesso trattamento, se non peggio, potrebbero andare incontro a cocenti delusioni quando saranno depositate le motivazioni della sentenza
Giustizia - di Salvatore Curreri
È obiettivamente difficile formulare un giudizio argomentato sotto il profilo giuridico (l’unico che qui interessa) senza conoscere le motivazioni sulla cui base il Tribunale di Palermo il 20 dicembre scorso ha assolto l’ex ministro dell’Interno Salvini dai reati di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio per non aver commesso il fatto. Eppure, è uno sforzo che va fatto, pur con tutta la prudenza che il caso richiede, non foss’altro per mettere sin d’ora quantomeno in discussione alcune conclusioni che, sulla scorta di tale sentenza, stanno cercando di orientare l’opinione pubblica ai fini della futura politica del Governo sull’immigrazione, ben al di là dei prevedibili toni propagandistici propri del costume politico dell’imputato.
In questa prospettiva vale la pena fare alcune precisazioni preliminari, soprattutto a beneficio di chi ha dimenticato (o fa finta…) l’assoluta specificità di tale vicenda rispetto a quella delle navi Diciotti e Gregoretti. Innanzi tutto, il reato di sequestro di persona è stato contestato a Salvini dal momento in cui (14 agosto 2019) si è rifiutato di dare esecuzione all’ordinanza cautelare con cui il Tar Lazio aveva annullato in via d’urgenza il divieto d’ingresso nelle acque territoriali opposto alla Open Arms. Fra i due reati, quindi, c’è un nesso strumentale perché il primo è stato ipotizzato quale conseguenza del secondo. In secondo luogo, tali reati sono stati contestati solo a Salvini perché fu l’unico, il giorno dopo della sentenza del Tar (15 agosto), a firmare un nuovo divieto, stavolta di sbarco contro la Open Arms (nel frattempo entrata nelle acque territoriali), nonostante il rifiuto stavolta opposto dai ministri Trenta e Toninelli e le riserve messe per iscritto dal Presidente del Consiglio sull’opportunità di tale divieto alla luce delle interlocuzioni allora in corso con gli altri Stati dell’U.E. per la redistribuzione dei migranti.
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Ciò premesso, dopo tre anni di processo – non per voluta inefficienza ma rispetto degli impegni istituzionali di imputato e testimoni – il Tribunale ha, come detto, assolto l’imputato con la formula più ampia possibile, cioè “perché il fatto non sussiste”. Va subito evidenziato che i giudici palermitani non hanno utilizzato la formula “perché il fatto non costituisce reato”, cui invece si ricorre quando si ritiene che il fatto sussista ma è stato commesso senza dolo o colpa oppure in presenza di una causa di giustificazione, come quella, invocata nel caso specifico, di aver agito per uno scopo politico. Hanno, quindi, probabilmente torto quanti ritengono che i giudici abbiano giudicato il comportamento di Salvini penalmente irrilevante perché indotto da motivazioni politiche, quindi per assenza dell’elemento soggettivo.
Oltre a non trovare infatti corrispondenza nella formula assolutoria utilizzata, tale tesi non tiene in adeguata considerazione non solo che tali valutazioni politiche non spettano al giudice – come se in uno Stato costituzionale di diritto qualunque finalità politica potesse rendere legittimo ciò che altrimenti sarebbe penalmente rilevante – ma anche che in realtà la preminenza dell’interesse politico era stata esclusa dal Senato quando (30 luglio 2020), nel concedere l’autorizzazione a procedere, aveva escluso che il ministro, nell’esercizio delle sue funzioni, avesse agito “per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico” (art. 9.3 l. cost. 1/1989).
Se tale ipotesi è corretta, non resta allora che concludere che i giudici abbiano ritenuto il fatto reato insussistente per mancanza dell’elemento oggettivo, cioè – molto più semplicemente – hanno ritenuto che quello conseguente all’operato di Salvini non fu un sequestro di persona, ancorché conseguente al rifiuto di dare esecuzione alla sentenza del Tar. In effetti, ai commentatori più attenti non era sfuggita la eccessività del reato ipotizzato, che presuppone limitazioni della libertà personale ben più coercitive sotto il profilo fisico e degradanti sotto il profilo morale rispetto a quelle poi verificatesi nella fattispecie. E ciò, anche senza voler svolgere considerazioni critiche circa il dovere dell’autorità amministrativa di assegnare un place of safety (POS) che consenta ai naufraghi di essere “sbarcati e condotti in luogo sicuro (…) nel più breve tempo ragionevolmente possibile” (§ 3.1.9 Convenzione SAR emendata nel 2006). Del resto, fu proprio perché “il fatto non sussiste” che il Gup di Catania (14 maggio – 12 agosto 2021) emise sentenza di non luogo a procedere sempre nei confronti di Salvini a conclusione dell’udienza preliminare sul caso Gregoretti, ritenendo la sua condotta non “finalizzata a sequestrare i migranti per un lasso di tempo giuridicamente apprezzabile”.
Se tali ipotesi ricostruttive sono fondate, si può allora ben concludere che le reazioni entusiaste per cui la difesa dei confini nazionali non è mai un reato per cui d’ora in poi si può applicare lo stesso trattamento ai migranti, se non peggio (come i decreti Piantedosi che costringono le ONG ad attraccare nei porti più distanti dal luogo di soccorso, come opportunamente evidenziato dal Direttore di questa testata sabato scorso) potrebbero andare incontro a cocenti delusioni quando le motivazioni della sentenza saranno depositate (tra almeno novanta giorni). Perché, contrariamente a quanto propagandato, la questione nodale non è mai stata se uno Stato debba difendere i propri confini, essendo ciò suo compito ineludibile, tanto più quando, come per l’Italia, essi coincidono con quelli esterni dell’Unione europea; né, tantomeno, è stato mai messo in discussione il potere statale di disciplinare l’immigrazione, poiché esso rappresenta “un profilo essenziale della sovranità dello Stato, in quanto espressione del controllo del territorio (…) in funzione d’un ordinato flusso migratorio e di una adeguata accoglienza” (Corte cost., 353/1997).
Piuttosto, il punto centrale è come ed entro quali limiti un Ministro dell’Interno debba difendere i confini nazionali. Poiché è quantomeno azzardato ritenere che i giudici, assolvendo Salvini, gli abbiano voluto consentire di violare le normative nazionali, europee e internazionali in materia d’immigrazione, non resta che attendere fiduciosi il deposito delle motivazioni, nella ragionevole presunzione che esse contribuiranno se non a contraddire, quantomeno a ridimensionare i toni trionfalistici di questi giorni di chi ha scambiato una sentenza di assoluzione con una sorta di licenza d’impunità.