“Il feticismo della merce”

Milei, Meloni, Musk e Trump: la mercificazione della politica che avanza

“Il feticismo della merce” si è esteso alla competizione tra i partiti, che vede gli aspiranti statisti cantare, ballare, provocare. Più il pretendente alla stanza dei bottoni è facoltoso, più posa a guitto

Editoriali - di Michele Prospero

3 Gennaio 2025 alle 16:00

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Foto Roberto Monaldo / LaPresse
Foto Roberto Monaldo / LaPresse

L’Underdog, che adesso abita in una villa con piscina, dichiara di essere amica ma di non prendere ordini da Mussolini. Ovunque i miliardari si cimentano in prima persona nella gara per la conquista del timone statale e ricevono l’unzione popolare per tagliare le zavorre sopravvissute (diritti, sussidi, residui apparati pubblici). Financo nelle democrazie che sembravano mature, riscuote successo il loco argentino che brandisce la motosega allo scopo di potare i ramoscelli di “socialismo” ancora tollerati.

Di fronte alle ovazioni per Milei, Trump e Musk c’è da domandarsi se non si registri in Occidente un avanzamento qualitativo della “spirale”, che nell’immagine marxiana indicava la dinamica assorbente del circolo del capitale, indotto, per conservarsi, a occupare ambiti via via nuovi. C’è da chiedersi, insomma, se ad assumere la forma di merce non sia oggi la politica stessa, che viene commercializzata alla stregua di qualunque oggetto appropriabile. Il capitale, effettiva “grandezza in movimento”, per riprodursi al di là dei confini presidiati non si può accontentare di uno statico mantenimento dell’equilibrio, deve costantemente invadere superfici inedite. La sensazione è che il vortice abbia ormai inghiottito addirittura la funzione politica, rendendola il campo privilegiato per un investimento produttivo al pari di quello rivolto alle armi, all’automobile o al digitale.

La continua distruzione di strutture in passato apparse solide, serve al sistema capitalistico per oliare gli ingranaggi arrugginiti e accelerare i diversi percorsi della valorizzazione illimitata, che già incamera il tempo di non-lavoro del navigatore della rete e i clic dell’uomo della tastiera. La rappresentanza, i poteri dello Stato, perdendo la loro tradizionale autonomia, vengono anch’essi collocati sul mercato e si dissolvono nelle trame acquisitive di attori insoliti che, mediante ingenti flussi di denaro e di fake news, di fatto comprano le cariche monocratiche. In questo modo, cioè con una politica tornata ad essere ad una sola dimensione, quella del capitale, di tutto ciò che sta al di fuori della fabbrica è possibile fare cosa privata: dalla sanità alla scuola, dalla Casa Bianca alla Casa Rosada.

Spogliata della polarizzazione in classi, unico fattore di inciampo potenziale, pure l’arena politica finisce per essere colonizzata dal profitto, che si incunea nelle preferenze del cittadino a mezzo della rappresentazione di leader seduttivi reclutati dalle imprese. La contesa per le leve di comando si svolge adottando le medesime regole del marketing e dello spaccio dei prodotti di largo consumo. Il capo politico si rivela così una merce tra le tante che viene esposta in vetrina e, per essere meglio negoziata, secondo la metafora di Marx, fa l’occhiolino all’utente. Questo significa che “il feticismo della merce” è un fenomeno estesosi alla competizione politica, la quale non a caso vede gli aspiranti statisti cantare, ballare, provocare.

Più il pretendente alla influente stanza dei bottoni è facoltoso, più posa a guitto bizzarro, sconclusionato e sfrenato. Solamente un Paperone sfondato, del resto, è credibile nell’arte della demolizione radicale del senso del discorso pubblico. Col proprio corpo spinto fino alla simulata pazzia, egli rapisce il corpo elettorale passivizzato, poiché nelle incandescenze e negli eccessi suoi è pur sempre l’abbagliante follia del capitale quella che si esibisce, infierisce e dissacra. Nessun votante, ancorché distratto e disinformato, prenderebbe sul serio un Trump o un Musk, se costoro organizzassero un profondo ragionamento programmatico e comunicassero nel rispetto della correttezza lessicale.

La ricetta persuasiva dei miliardari scesi nell’agone, infatti, poggia sul rifiuto dell’argomentazione, sulla fuga calcolata dagli imperativi della coerenza. L’allontanamento dalla razionalità del costrutto verbale è il punto di forza del capitale politico che intende non già convincere, ma intercettare un desiderio, blandire un bisogno destinato poi a rimanere insoddisfatto. Proprio come la merce, anche il magnate che si dà alla politica palesa nel suo profilo una mescolanza ingarbugliata di sensibile e sovrasensibile. Personaggi del calibro del tycoon golpista mancato, o del mister X fresco commissario alla “spending review”, stravincono con la loro offerta metapolitica perché sono autentici valori di scambio, che ammaliano le periferie grazie alla fascinazione trasmessa da un fisico avvolto nelle banconote. Attraverso il volto di simili avventurieri, la merce in certa misura parla, si propone in bella mostra.

A causa dell’abbondanza sterminata che possiedono, gli oligarchi infrangono qualsiasi opposizione e fanno proseliti anzitutto tra i meno abbienti. Il trascinamento magico suscitato è connesso al dollaro che scorre in quantità infinita ed è capace di tramutarsi in qualità idonea perfino a cancellare le ombre depositate nella fedina penale e a sciogliere ogni aurea procedura costituzionale. Per merito della potenza irresistibile della moneta, le menzogne sparse sul web diventano un attestato di verità, i no-vax dirigono le politiche sanitarie, gli assalitori del Campidoglio incantano la folla e ritornano a Washington.

Il magismo del capitale, che per Marx “si presenta come un meccanismo automatico, come un semplice numero che si accresce da se stesso”, nell’era dell’algoritmo trova nella strana coppia americana gli interpreti perfetti per la sua realizzazione. Nel connubio trionfante fra il genio visionario che sogna Marte e il comandante in capo che sprigiona una onnilaterale volontà di dominio, si impone senza ostacoli la signoria della ricchezza declinata a mo’ di linguaggio universale, il quale sgonfia i legami sociali, irrobustisce le ambizioni, sguinzaglia le energie creative. L’arcano della politica ridotta a pura merce, che alimenta speculazione e circolazione, può essere decifrato esclusivamente con un lavoro sotterraneo in grado di svelare una regolarità evidente: Musk, che presta i satelliti in guerra e lancia i missili nello spazio, che confonde le coscienze con i tweet e impianta chip nel cervello umano, è soltanto l’ultima versione del funzionario del capitale. In tale veste, egli stringe un patto redditizio per la gestione del governo, giacché lo Studio Ovale gli pare il luogo adatto per coltivare mire monopolistiche e contenere la temibile concorrenza rappresentata dalle più economiche auto elettriche cinesi.

La ritirata della sinistra dal grande conflitto per determinare un’alternativa di società lascia sguarnite tutte le postazioni necessarie per abbozzare prove di resistenza al piano espansivo del capitale, che trasforma l’amministrazione federale nel gioco d’azzardo di chi punta a massimizzare gli utili mentre esercita l’autorità, il controllo e la sorveglianza. Dopo la fase delle liberalizzazioni selvagge, che hanno incrinato l’egemonia a stelle e strisce nei traffici dell’economia-mondo, il capitalismo statunitense si butta in politica per stabilizzare il monopolio acciuffato in alcuni cruciali settori strategici. La sorte della democrazia è essere annichilita dinanzi al cammino inesorabile della merce che, oltre ai beni pubblici e comuni, privatizza lo stesso congegno della leadership, trasfigurandola in una “forma fantasmagorica” pronta per lo smercio.

3 Gennaio 2025

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