4 suicidi in dieci giorni
Amnistia, tutti d’accordo tranne governo e Nordio: intanto nelle carceri la strage continua
La prima risposta da dare alla strage di vite e diritti nelle carceri è la riconduzione immediata della popolazione carceraria alla capacità degli istituti. L’hanno riconosciuto il presidente del Senato, il vicepresidente del Csm.
Giustizia - di Stefano Anastasia
Se il 2024 è stato l’annus horribilis delle morti e dei suicidi in carcere, questo è iniziato peggio. Il ragazzo che si è suicidato mercoledì sera a Regina Coeli è già il quarto in Italia, in meno di dieci giorni, senza contare un suicidio in Rems, un’altra morte in carcere per causa da accertare e l’operatore penitenziario che si è tolto la vita nel carcere di Paola.
“L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili”, ha detto il Presidente Mattarella nel messaggio di fine anno agli italiani, aggiungendo che il sovraffollamento contrasta con “norme imprescindibili sulla detenzione in carcere” e “rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario”. Non è mai facile individuare il rischio suicidario, ma se gli operatori devono far fronte al doppio delle presenze in carcere, come è a Regina Coeli, con la metà del personale in organico, l’impresa diventa impossibile. Quando si prenderanno i provvedimenti necessari e urgenti per ridurre la popolazione detenuta e consentire al personale di polizia, educativo e sanitario di farsi carico degli autori di reati più gravi e con lunghe pene da scontare?
Il ragazzo che si è tolto la vita l’altra sera a Roma aveva 23 anni e due figli, tossicodipendente, di nazionalità rumena, era in carcere dai primi di dicembre in custodia cautelare per reati predatori: quando Governo e Ministro dicono che vogliono risolvere il problema del sovraffollamento riformando la custodia cautelare intendono dire che anche uno come Florin potrà aspettare il processo in libertà, come un colletto bianco qualsiasi? Quando Ministro e Governo (ieri la Presidente Meloni) dicono che i detenuti stranieri dovranno andare a casa loro, intendono anche chi, come Florin probabilmente, nel Paese di cui ha cittadinanza non c’è mai stato, il suo Governo non lo vuole e, nel frattempo, è in attesa di giudizio qui in Italia?
Quando Governo e Ministro dicono che pensano di risolvere il problema del sovraffollamento trasferendo le persone senza “domicilio idoneo” in condomini o in comunità, intendono anche Florin, tossicodipendente in attesa di giudizio per furti e rapina, o le ragazzine rom per cui è stata escogitata la modifica niente meno che del troppo liberale Codice Rocco che differisce la pena per le donne incinte e le madri di neonati con meno di un anno di età? Quando la Presidente del Consiglio dice che risolverà il problema del sovraffollamento con la costruzione di nuove carceri, a parte il fatto che parla di numeri insufficienti rispetto alle necessità, ha messo in conto i soldi, il tempo, il personale penitenziario e sanitario indispensabile ad aprirle, a gestirle e ad assicurarvi i servizi essenziali?
Poi, certo, nel migliore dei mondi possibili, i detenuti in carcere dovrebbero avere la necessaria assistenza sociale e sanitaria, occasioni di istruzione, formazione e inserimento lavorativo, e ogni altra cosa necessaria a fargli “respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine”, come ha detto ancora il Presidente della Repubblica l’ultimo dell’anno, ma intanto che si fa? Aprendo la Porta Santa a Rebibbia, Papa Francesco ha esortato i detenuti ad aggrapparsi alla speranza, ma nella speranza di un’alternativa a queste carceri sovraffollate e degradanti dobbiamo crederci anche noi e soprattutto chi ha responsabilità politiche e di governo, a cui il Papa chiede “iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”.
E la prima risposta da dare a questa strage di vita e diritti nelle carceri italiane è la riconduzione immediata della popolazione carceraria alla capacità degli istituti penitenziari e alle disponibilità di personale in servizio: un provvedimento di indulto di due anni, che ridurrebbe la popolazione alla capienza regolamentare effettivamente degli istituti di pena, accompagnato da un’amnistia per i reati puniti nel massimo fino a due anni, che rallenterebbe un eventuale ritorno del sovraffollamento, consentendo al Governo di mettere in atto ogni strategia di medio-lungo periodo ritenga opportuna per garantire il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione. Lo hanno riconosciuto, in modo diverso, nei giorni scorsi, il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, il Vice Presidente del Csm Pinelli e il Presidente del Cnel Brunetta.
Si obietta: ma il Governo sta facendo tutto il contrario, moltiplicando le figure di reato e le cause di incarcerazione. Vero, ma un provvedimento di amnistia-indulto non incide sulla politica criminale, ma solo su una contingente situazione di emergenza, ponendovi fine e dando tempo al Governo di fare ciò che crede. D’altro canto, per quanto discutibile sia, l’assurda norma costituzionale che rende più difficile l’approvazione di un provvedimento di clemenza della sua stessa modifica obbliga a una corresponsabilità tra maggioranza e opposizione, levando motivi di polemica strumentale tra le forze politiche di diversa collocazione istituzionale.
Nel 2006, in occasione dell’unico provvedimento di clemenza approvato con le nuove rigidissime norme introdotte nel 1992, il presidente del consiglio e il leader dell’opposizione dell’epoca, Romano Prodi e Silvio Berlusconi, votarono allo stesso modo, guidando le rispettive forze politiche in un accordo necessario, che diede respiro per alcuni anni alle nostre carceri, dimezzando la recidiva tra quanti ne hanno beneficiato. Certo il sovraffollamento presto ritornò, ma anche perché allora non si ebbe il coraggio di fare anche un’amnistia per quei reati minori allora come oggi che affollano le nostre carceri.
Tutte queste cose sono note al colto e all’inclita, e soprattutto agli operatori della giustizia e del carcere. Resistono solo Governo e Ministro, erroneamente convinti che la loro base elettorale di riferimento in queste materie, la polizia penitenziaria, sia naturalmente contraria a ogni provvedimento di clemenza. Ma non è così: sono mesi che giro per carceri dolenti, segnate da morti e suicidi e spesso messe a soqquadro da proteste di detenuti senza speranza, e non ho ancora trovato un agente di polizia che non vedrebbe un provvedimento di clemenza come un beneficio per se stesso, per i suoi colleghi e per il loro lavoro.
All’appello per un atto di clemenza nelle carceri che abbiamo promosso con Luigi Manconi e indirizzato ai parlamentari della Repubblica hanno aderito storici dirigenti dell’Amministrazione penitenziaria, come Luigi Pagano e Carmelo Cantone. Anche tra i sindacati della polizia penitenziaria comincia a muoversi qualcosa. Sarebbe importante se altri pronunciamenti arrivassero, a svegliare governo e maggioranza dalle loro erronee convinzioni, prima che quella lunga di scia di morti dello scorso anno si trascini per inerzia anche in questo.