Il caso al Corvetto

Quanto è difficile chiedere verità e giustizia per Ramy e gli altri ‘vulnearbili’

L’episodio di Milano è più di una tragedia individuale: è uno specchio delle fragilità che il sistema penale e la società perpetuano nei confronti di alcune fasce della popolazione, soprattutto se di origine straniera

Cronaca - di Valeria Verdolini

10 Gennaio 2025 alle 20:00

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Foto Andrea Alfano / LaPresse
Foto Andrea Alfano / LaPresse

Nella notte tra sabato e domenica 24 novembre 2024, a Milano, uno scooter con a bordo due giovani, Ramy Elgaml, 19 anni, egiziano residente in Italia dall’età di undici anni, e Fares “Fafà” Bouzidi, 21 anni, tunisino, è stato inseguito da una volante dei carabinieri. I due, che vivevano nel quartiere Corvetto e avevano precedenti penali, non si sono fermati all’alt dei carabinieri in via Farini, nei pressi di corso Como. Al momento dell’incidente, Ramy aveva in tasca 125 euro. Il suo amico portava con sé 850 euro e una catenina che ha dichiarato essere di sua proprietà.

L’inseguimento si è concluso tragicamente sul rettilineo di via Ripamonti, dove lo scooter è finito contro un muretto. Ramy, in una prima ricostruzione privo del casco perso durante l’inseguimento, è stato sbalzato dalla moto e ha riportato ferite mortali. Fares, ferito, è stato successivamente indagato per omicidio stradale e resistenza. Nel frattempo, l’auto dei carabinieri è finita contro un semaforo. Nella fase iniziale, quando le circostanze esatte dell’incidente erano estremamente labili, la fragilità sociale dei due giovani, acuita dal loro status di non cittadini e dai loro precedenti, ha inciso profondamente sulla narrazione dell’evento. Solo dopo le accese proteste che hanno infiammato per due notti il quartiere di Corvetto, con la richiesta di “Verità e Giustizia per Ramy” anche alcuni agenti sono stati coinvolti dalle indagini. Ramy è stato sepolto a Milano, nel cimitero di Bruzzano. I genitori hanno chiesto di fermare le proteste, dicendosi fiduciosi nell’operato delle forze dell’ordine.

Lo scorso martedì il Tg3 ha trasmesso le immagini dell’inseguimento, riprese dalle dashcam delle auto dei carabinieri e da alcune telecamere di sicurezza. Se visivamente la scena racconta un inseguimento drammatico, è l’audio a turbare maggiormente: “Vaffanculo, non è caduto”, esclama un militare quando lo scooter affronta una curva senza perdere il controllo. Più avanti: “Vai, chiudilo, chiudilo che cade.” Quando il mezzo non cade: “No, merda, non è caduto.” Infine, dopo la caduta, si sente: “Via Quaranta-Ortles, sono caduti.” La risposta: “Bene.” Per comprendere cosa sia realmente accaduto è necessario osservare le riprese di un’altra videocamera, posizionata tra via Ripamonti e via Solaroli. Le immagini mostrano il T-Max che svolta a sinistra e l’auto dei carabinieri che sembra urtarlo. Entrambi finiscono contro un semaforo. Ramy perde la vita sul colpo, a causa di una lesione all’aorta, schiacciato contro il palo. Alcuni peli del bordo in pelliccia del suo giaccone, che indossava quella sera, sono stati ritrovati incastrati nella targa dell’auto dei carabinieri.

Un elemento rilevante riguarda un testimone che compare nelle immagini e che inizia a riprendere la scena con il suo telefonino. Durante il caos, si sposta leggermente e rischia di essere travolto. Il testimone ha dichiarato, sia durante le indagini difensive sia davanti al magistrato, di essere stato costretto da due carabinieri a cancellare il video dal suo cellulare. Le immagini della dashcam di una terza auto dell’Arma mostrano chiaramente i due carabinieri mentre si avvicinano a lui, con il testimone che alza le mani. I due militari sono attualmente indagati per falso, depistaggio e favoreggiamento personale. Per il cellulare del testimone è stata disposta una perizia informatica. Nel verbale redatto dai carabinieri, si legge che lo scooter, “a causa del sovrasterzo, scivolava scarrocciando ad alta velocità sul marciapiede, fino a colpire un palo semaforico pedonale e terminare la sua corsa contro un’aiuola”. Viene anche sottolineato che sarebbero state prese “tutte le misure di precauzione per evitare una collisione”. Già nel 1949 Piero Calamandrei parlava della centralità del “Vedere! Bisogna aver visto”, parlando degli spazi istituzionali.

Ma cosa significa davvero vedere? Perché sempre più nelle vicende in cui si procede per violenze istituzionali le immagini diventano l’unica chiave per chiedere davvero verità e giustizia? Pur non entrando nel merito delle vicende processuali, ancora aperte e in corso, le immagini stesse e i loro audio ci restituiscono molto rispetto agli agiti contro alcune fasce della popolazione, che sia privata della libertà o a piede libero, soprattutto se di origine straniera. Questo episodio sottolinea in primis la necessità di strumenti di trasparenza, del come vedere in concreto, come le dashcam e le bodycam per documentare e rendere visibile ciò che avviene. Questi dispositivi permettono di fare chiarezza su eventi che potrebbero essere altrimenti distorti o insabbiati. Ma è chiaro che solo vedere non basta, è necessario lavorare sulle forme di prevenzione, perché il caso di Ramy non è un caso isolato. La fragilità giuridica diventa fonte di paura e di diffidenza nei confronti delle forze dell’ordine, che spesso rafforzano questo pregiudizio negativo attraverso processi di selettività ed esclusione.

Il recente Report Ecri del Consiglio d’Europa ha criticato duramente l’Italia, parlando esplicitamente di “profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine” con frequenti fermi e controlli su base etnica. Ecri afferma che le autorità non sembrano essere consapevoli di quanto questa pratica sia problematica, perché non considerano la profilazione razziale come una forma di potenziale razzismo istituzionale. L’episodio di Milano è più di una tragedia individuale: è uno specchio delle fragilità che il sistema penale e la società perpetuano nei confronti dei non cittadini.

La vulnerabilità, anziché essere riconosciuta e protetta, diventa un marchio di non credibilità, alimentando cicli di marginalizzazione e violenza, e difficoltà nella richiesta di verità e giustizia. Speriamo che questa vicenda possa portare a delle trasformazioni significative, nel ripensare non solo il meccanismo di accertamento e di accountability degli abusi di polizia, ma la cultura democratica dei corpi delle forze dell’ordine e l’urgenza di non discriminazione e di piena cittadinanza e dignità di tutte e tutti.

*Presidente Antigone Lombardia

10 Gennaio 2025

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