Parliamone senza tabù
Scala mobile: è il momento di rimetterla, mentre il governo Meloni non fotografa la società
La Bce l’ha applicata ai propri tassi d’interesse, rivalutati ogni tre mesi in base all’inflazione. Vale a dire: profitti delle banche sì che vengono indicizzati. Perché non dovremmo tornare a farlo con i salari che sono sprofondati in basso?
Politica - di Marco Grimaldi
Sono passati quasi quarant’anni dal referendum sulla ‘scala mobile’ e ormai quarantuno da quel 14 febbraio 1984 in cui il primo governo a guida socialista della Repubblica, guidato da Bettino Craxi, firmò il decreto-legge cosiddetto “di San Valentino”. Quel provvedimento sancì il tagliò 4 punti di contingenza, poi ridotti a tre, di un sistema che risaliva a un accordo interconfederale tra la Cgil e Confindustria del 1945.
Di cosa si trattava in molti lo sanno: un meccanismo di adeguamento trimestrale delle retribuzioni all’inflazione, attraverso dei “punti di contingenza” legati a un “paniere” di beni a di riferimento per indicizzare i prezzi. Può sembrare un vocabolario desueto, ma probabilmente solo perché il tema dei salari è, progressivamente, uscito dal dibattito pubblico e dalla programmazione politica. Affidato ai meccanismi del mercato. Il Governo Meloni, per esempio, evita accuratamente perfino di fotografare la società. Quella società ferita da precarietà, lavoro povero, caporalato, imprenditori senza scrupoli e sciacalli. Quella in cui le imprese investono poco in tecnologia e produttività: gli azionisti negli ultimi quattro anni hanno reinvestito nelle loro società solo il 20% degli utili netti. E il resto? l’80% è stato distribuito in dividendi: quasi 52 mld nel biennio 2022-23.
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La Presidente, in una conferenza stampa fiume, ha parlato di tutto glissando sapientemente sulle condizioni di povertà di milioni di persone, sulle ingiustizie sociali, sul disastro della sanità italiana. Soprattutto di chi in Italia lavora e rimane povero. Ma torniamo di nuovo indietro. Il 24 marzo del 84 a Roma, la Cgil organizzò un’imponente manifestazione a cui partecipò circa un milione di persone. Ma a giugno il decreto fu comunque convertito in legge. Il referendum del 9 e 10 giugno 1985 per l’abrogazione del provvedimento del governo fu una sconfitta per il Pci e Democrazia Proletaria: il quorum fu ampiamente superato, ma con una differenza di circa l’8% vinse il no. E probabilmente per questo, perché perdere – nel senso comune – diventa subito sinonimo di avere torto, anche dalle nostre parti è nato un tabù. Gli accordi triangolari fra il governo Amato e le parti sociali del 1992 abolirono definitivamente la scala mobile. Il sipario calò.
Perché, allora, tornare a un dibattito tanto lontano? A una fase che molti considerano chiusa per sempre? Tante storie orribili di lavoro povero hanno mostrato come la contrattazione collettiva oggi non abbia le forze per recuperare la perdita del potere d’acquisto dei lavoratori e delle lavoratrici. Uno dei fattori che mantengono bassi i salari è l’assenza di un salario minimo legale. Un altro è il ritardo nei rinnovi contrattuali. A fine dello scorso anno restavano da rinnovare 29 contratti che riguardano 6.9 milioni di lavoratori, più i 3.5 milioni di lavoratori pubblici.
Secondo l’ISTAT, il tempo medio di attesa di rinnovo è di 18.3 mesi per i lavoratori con contratto scaduto, 9.6 mesi per il totale. Fermo addirittura il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, su cui Federmeccanica e Assistal hanno rotto la trattativa con i sindacati. Il salario minimo può essere affiancato alla contrattazione collettiva ma come è noto a tutti e tutte non solo non basta ma soprattutto non risponde a quanto sto per chiedervi. Perché dall’inizio degli anni ‘90 – quando la scala mobile è scomparsa – i salari sono diminuiti del 3,41%, mentre crescevano in tutta Europa?
Io penso che sempre più quote di reddito si siano spostate dal lavoro ai profitti. I salari sono sprofondati in basso e sembra siano l’unica cosa che non può essere indicizzata. La Banca Centrale Europea, per esempio, ha applicato la scala mobile ai propri tassi d’interesse, rivalutati ogni tre mesi in base all’inflazione. Vale a dire: i profitti delle banche sì che vengono indicizzati. Perché mai non dovrebbero tornare a esserlo i salari? Apriamo una discussione. Senza tabù.