Aggressioni, minacce e gogna
Avvocati nel mirino, così la difesa è diventata un crimine
C’è una primordiale confusione di ruoli che sovrappone la difesa dell’accusato alla difesa del reato. Così il difensore diviene indistinguibile dalla parte che assiste, travolto da un medesimo disprezzo
Giustizia - di Francesco Petrelli
I fatti recenti di Verbania e la vicenda della collega Elisa Endriolo minacciata per aver assunto la difesa di un indagato per gravi fatti di violenza ai danni di una donna, inducono ancora una volta a riflettere sul tema del diritto di difesa, non solo nei processi attinenti ai reati di genere, e sulle sue sorti nel nostro Paese.
Ogni professione ed ogni mestiere lega inevitabilmente chi lo esercita all’oggetto delle proprie cure e del proprio sapere (il medico al paziente, l’artigiano al suo prodotto, l’operaio alla catena di montaggio, l’architetto al progetto e al suo edificio …). Per l’avvocato, tuttavia, sembra che il vincolo con l’assistito sia di per sé fonte di uno stigma e di una dipendenza malevola. Difendere l’accusato significa assumere su di sé non solo il peso ma anche la macchia dell’accusa. Stupisce vedere che una collettività che vuol credersi moderna e civile non riesce a domesticare questa primordiale confusione di ruoli autore/difensore che sovrappone la difesa dell’accusato alla difesa del reato.
Si tratta di un pensiero che stenta ad essere sostituito dai più elementari paradigmi illuministici, in un momento in cui le viscere primordiali del “ghenos” sembrano prendersi incontrastate il controllo della “polis”. È proprio questa la luce sinistra che si riverbera pericolosamente sulle vicende degli “avvocati minacciati” e che rivive nella rete e nei social: ogni volta che nelle cronache giudiziarie assume rilievo un qualche crimine particolarmente odioso, chi assuma la difesa dell’accusato diviene automaticamente oggetto di aggressioni fisiche e verbali, di minacce e di pubblica gogna.
L’Accusa ha così preso il sopravvento nella cultura del nostro Paese, che tutto ciò che agli occhi del pubblico non la favorisca deve essere spazzato via. E’ così successo che nell’immaginario collettivo, paradossalmente, la difesa tecnica dell’accusato finisce con l’apparire peggiore dello stesso reato. Sul difensore si concentra tutto lo stigma sociale ed il rancore che non può raggiungere l’autore del delitto, al quale il delitto può essere paradossalmente perdonato come gesto oramai relegato al passato, alla sua non più cancellabile consumazione.
A fronte di una condotta in qualche modo neutralizzata nella sua fissità oramai trascorsa, l’attività del difensore ravviva nel presente l’orrore e l’ingiustizia del reato: nella stessa discussione del fatto, nel negare o nel diminuire la responsabilità del proprio assistito nel delitto, l’avvocato è costretto inevitabilmente a far rivivere l’onta della collettività ferita. Data come un fatto reale, questa identificazione produce quesiti sociali abnormi: “come può una donna difendere l’autore di un reato di genere?”. “Come può un titolare di cattedra difendere l’assassino di una studentessa”? “Come fai a difendere un colpevole?”.
L’indipendenza, deontologicamente proclamata come precondizione dell’agire dell’avvocato, per l’esercizio universale del diritto di difesa, si trasforma, all’interno della nostra collettività, in una dipendenza senza scampo dal delitto. Non solo il difensore sarebbe non credibile perché portatore di interessi di parte, ma diviene anche indistinguibile dalla parte che assiste, travolto da un medesimo disprezzo, richiesto di un’inesigibile abiura.
Questo “diritto penale del nemico” finisce con il trasformare l’avvocato, da baluardo delle garanzie costituzionali, in un bieco e cinico responsabile di atti di “intelligenza con il nemico”. Quell’antica necessaria alleanza fra legge e pulsione sembra essersi spezzata. Ma se questo è accaduto credo che valga la pena di fermarsi, prima che sia troppo tardi, a riflettere sulla sua indispensabilità ai fini della conservazione della nostra convivenza civile. Capita infatti alle collettività, quando sono attraversate dal vento dell’irrazionale, di tagliare il ramo sul quale sono sedute.
*Presidente Unione camere penali italiane