La repressione di Brescia
Cosa è accaduto nella questura di Brescia: le presunte violenze sulle donne e il silenzio di Meloni
A Brescia manifestanti costrette a togliere le mutande, fogli di via e soprusi: così il governo fuori controllo sovverte la democrazia
Cronaca - di Marco Grimaldi

“Ci hanno chiesto di spogliarci, toglierci le mutande e fare tre squat per dei controlli”. Dopo che ho riportato alla Camera queste parole, dopo le prime difese d’ufficio, alla fine, la Questura di Brescia ha ammesso. Lo ha fatto dopo essersi schermita, dichiarando che le perquisizioni di due giorni fa (13 gennaio) si sarebbero svolte “nel rispetto dei diritti e della dignità delle persone”. Infine ha dovuto rettificare: “È stato chiesto di effettuare piegamenti sulle gambe al fine di rinvenire eventuali oggetti pericolosi”. Chissà in quali anfratti del corpo femminile avrebbero dovuto trovarsi questi oggetti pericolosi, e con quale dinamica fisica tre squat li avrebbero fatti saltare fuori… Ricapitoliamo un momento i fatti.
Lunedì mattina, un gruppo di attivisti e attiviste dei movimenti Extinction Rebellion, Palestina Libera e Ultima Generazione si raduna davanti alla sede bresciana della Leonardo Defense, società a controllo pubblico attiva nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza. Leonardo è la prima produttrice bellica europea e contribuisce alla vendita di armi nell’ambito degli attuali scenari bellici, in particolare in Palestina. Il presidio ha dunque lo scopo di chiedere allo Stato e alla società produttrice di armamenti di interrompere “la complicità nel genocidio palestinese e nei crimini di guerra e contro l’umanità che si stanno consumando a Gaza”. Viene srotolato uno striscione, alcuni manifestanti si incatenano, una bandiera palestinese viene sostituita a quella dell’azienda, della vernice è usata per scrivere “Palestina libera” su un muro.
Perciò, come ampiamente documentato, la manifestazione si svolge pacificamente, senza che vengano arrecati danni permanenti a cose o sia usata violenza verso persone. Alle 8,30 interviene la Digos, con il supporto dei Vigili del fuoco. 23 militanti sono sottoposti a sette ore di fermo presso la Questura di Brescia e poi rilasciati, dopo denunce per “radunata sediziosa” (art. 655 del Codice penale), “accensioni ed esplosioni pericolose” (art. 703), “imbrattamento” (art. 639) e “concorso morale” (art. 112). Alcune vengono denunciati anche per “manifestazione non preavvisata” (art. 18 Tulps), solo per aver mediato con le forze dell’ordine per evitare tensioni, venendo perciò arbitrariamente definite “promotrici della manifestazione”. Altri manifestanti sono espulsi da Brescia con dei fogli di via obbligatori, una misura di prevenzione prevista – come noto – dal Codice antimafia. Già interrompendoci a questo punto sono evidenti misure sproporzionate e abusi.
In primo luogo, in base all’articolo 349 del Codice di procedura penale, il trasferimento negli uffici di polizia può avvenire solo nel caso in cui non sia possibile identificare le persone sul posto: le 23 persone condotte in Questura e trattenute in stato di fermo hanno tutte immediatamente fornito i documenti. Nel verbale della Questura, il trasferimento è giustificato con riferimento ai reati di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337), oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341-bis) e rifiuto di fornire indicazioni sulla propria identità personale (art. 651). Tutte evenienze smentite non solo dalle testimonianze, ma dai video girati dai manifestanti.
L’altro elemento che continua – perché ahimè sta diventando un’abitudine – a fare scandalo è l’uso indiscriminato dei fogli di via. Solo 5 giorni fa, la Procura di Torino ha archiviato decine di denunce ad attivisti ecologisti per manifestazione non preavvisata, imbrattamento, invasione, violenza privata e detenzione abusiva d’armi. Denunce respinte perché “il fatto non sussiste” e capi di accusa caduti in quanto privi di fondamento rispetto agli eventi realmente accaduti. Quegli attivisti sono in gran numero destinatari anche di fogli di via.
Un esito positivo, dunque, che dimostra però un fenomeno inquietante e poi suscita una riflessione: il fenomeno è che troppo spesso, ultimamente, le Questure intasano gli uffici dei PM con denunce insensate, che non servono ad aprire processi, ma solo a giustificare la notifica di misure di prevenzione – come appunti i fogli di via o il Daspo urbano – contro chi protesta, allontanandolo dalla città senza un processo, e a creare un clima di ostilità verso i movimenti. Perché il foglio è a discrezione dell’autorità di polizia e non dei magistrati alla fine di un processo. È uno strumento unicamente repressivo e serve a una cosa: sradicare i cittadini attivi dalle proprie comunità, disgregandole. Per inciso, è stato il movimento No Tav, negli ultimi trent’anni, il principale laboratorio repressivo dello Stato italiano e, proprio in Val di Susa, è cominciato l’uso disinvolto dello strumento del foglio di via, che oggi si applica un po’ a chiunque scenda in piazza.
Nella stessa direzione la circolare con cui Piantedosi ha invitato tutte le prefetture a identificare delle “zone rosse” da cui tenere lontano persone ritenute “pericolose” secondo una valutazione del tutto arbitraria, non supportata da condanne penali. Dicevo: un fenomeno e una riflessione. La riflessione è che, se da un lato – purtroppo – già ci sono PM che agiscono di concerto con la polizia giudiziaria, in senso estremamente punitivo, dall’altro capita spesso che arresti e ipotesi di accusa del tutto sproporzionati vadano incontro a mancate convalide da parte di pubblici ministeri attenti. In questi giorni si discute di riforma della giustizia e separazione delle carriere. Bene, io credo che rompere il modello costituzionale di unicità della magistratura avrà un solo effetto: spingere definitivamente il pubblico ministero fuori dalla cultura della giurisdizione e avvicinarlo ancora alla funzione di polizia. Ma noi abbiamo bisogno di un organo che eserciti un ruolo corretto di direzione della polizia giudiziaria, non di un “avvocato della polizia”, che magari ne difenda ancora di più l’impunità quando commette degli abusi.
E qui vengo al momento più cupo dei fatti di Brescia. Dopo avere fatto togliere loro i giubbotti, le felpe, le maglie, i pantaloni, non si sono fermati: bisognava togliere anche gli slip e fare dei piegamenti. Ma solo le attiviste donne. Davvero, dopo l’ammissione di tali fatti da parte della Questura di Brescia, qualcuno ha il coraggio di parlare ancora di scudo penale? A che cosa servirebbe esattamente? Ad avere la libertà indiscriminata di porre in stato di fermo, arrestare, umiliare e offendere qualcuno per intimidirne cento? L’agibilità, insomma, per dissuadere un’intera generazione dallo scendere in piazza e dissentire su qualunque cosa? O il diritto di innescare inseguimenti da film americano ai danni di persone incensurate, causandone la morte, senza conseguenze?
Sarebbe comunque una forma di immunità e impunità per le forze di polizia, poste al di sopra della legge, del tutto incostituzionale; come già lo è – a mio avviso – il divieto per i magistrati di far prevalere le attenuanti sulle aggravanti nel caso di reati contro agenti delle forze dell’ordine. Divieto già contenuto nel ddl Sicurezza. Piantedosi dovrebbe fermare sul nascere la discussione sullo scudo penale e aprire un’indagine su quanto avvenuto a Brescia. Siamo ancora in una democrazia, non vogliamo vedere soprusi che riportano la nostra memoria a Bolzaneto.
*Deputato Alleanza Verdi e Sinistra