Traballa l'alleanza
Il caso Zaia fa tremare la maggioranza: rischio rottura tra Meloni e Salvini
Governo in fibrillazione per la candidatura di Zaia, deciso a fare il governatore senza l’appoggio di nessuno. Tra Meloni e Salvini lo strappo sarebbe inevitabile
Politica - di David Romoli
Il Veneto non diventerà un grosso problema per la premier. Lo è già. Il quarto mandato a cui mira Zaia non è il solo nodo. Quando il governatore sbotta con un velenoso “È stucchevole che la lezione venga da bocche che da trent’anni sono sfamate dal Parlamento” ha in mente la sua determinazione nel voler restare governatore. Ma quando avverte che se il candidato non sarà un leghista “le strade potrebbero dividersi” la minaccia è anche più tagliente perché proprio quello è l’obiettivo della premier, sottrarre al Carroccio la roccaforte veneta, e a quella poltrona ha fatto la bocca anche FI, con l’ex leghista Flavio Tosi. Ma per la Lega cedere il Veneto sarebbe come sventolare bandiera bianca una volta per tutte. Dunque la minaccia di Zaia non è da prendere sotto gamba o non dovrebbe esserlo per il capo della coalizione di centrodestra.
Ma Giorgia Meloni non è una leader di coalizione. Non lo era quando è arrivata a palazzo Chigi, non lo è diventata col tempo e l’esperienza. Probabilmente non lo sarà mai. Ha dimostrato di essere abile come capopartito e anche come presidente di un governo basato sull’alleanza tra partiti: ma la capacità di rappresentare una coalizione è cosa diversa. La tensione con la Lega si è impennata negli ultimi giorni ma era da tempo che montava: nulla autorizza a credere che scemerà nel prossimo futuro. Lo scontro sul ddl Sicurezza ha due aspetti distinti. FdI, cioè Meloni, frena l’impeto della Lega e di Fi, che vorrebbero approvare subito e così com’è la legge anche a costo di un grosso sgarbo istituzionale nei confronti di Mattarella per ragioni essenzialmente di propaganda securitaria. Lo fa perché la premier non è più donna da comizio e non intende incrinare i rapporti già delicati con il Colle. Ma lo fa anche perché non vuole che Salvini si accrediti come il vero garante della sicurezza, intesa come pura repressione: l’uomo forte del governo. Per lo stesso motivo non ha alcuna intenzione di concedergli la postazione a cui mira, quella di ministro degli Interni.
Sulla carta la possibilità di provare a ricompensare Salvini per la perdita del Veneto concedendogli la postazione che non ha mai smesso di bramare da quando ha lasciato il Viminale cinque anni fa ci sarebbe. Probabilmente il leghista accetterebbe il baratto ma nemmeno lui può controllare Zaia e la Lega del Veneto e Zaia ha forza sufficiente, in Veneto, per sfidare i due poli da solo. Probabilmente vincerebbe comunque. E in ogni caso, Veneto o non Veneto, a sostituire Piantedosi con l’incontrollabile Salvini la premier non ci pensa per niente. Il principale obiettivo del leghismo veneto è l’autonomia differenziata. Anche quella sarebbe una moneta di scambio non priva di possibilità di successo. Ma anche qui la strada pare preclusa proprio da palazzo Chigi. I Fratelli di Giorgia, in privato e con la dovuta discrezione, danno per certi tempi lunghi per il varo dell’autonomia. La tabella di marcia di Calderoli, recepire le modifiche chieste dalla Consulta e procedere a spron battuto, quasi non è presa in considerazione. Anche su quel fronte, insomma, la Lega prenderà bastonate e resterà a becco asciutto.
Ma per quanto può subìre un trattamento simile Salvini? E per quanto la Lega del nord può accettare che Salvini lo subisca a spese non solo dell’ex capitano ma anche proprie? La premier è evidentemente convinta che al suo vicepremier non sia rimasto alcun margine di manovra e sia pertanto costretto a fare buon viso a pessimo gioco, come del resto ha fatto sinora. I rapporti di forza confortano la visione piuttosto brutale della premier ma anche in queste condizioni il bastone non accompagnato da alcuna carota potrebbe non bastare.
La realtà è probabilmente che Meloni non ha ancora deciso cosa fare con la Lega e della Lega. Il miraggio di Salvini di fare del Carroccio un partito nazionale è svanito. Quella sfida Meloni l’ha già stravinta. La Lega è tornata a essere un partito del nord. Ma da come si muove, si direbbe che anche quella postazione per Giorgia sia troppo e che nella sua prospettiva al Carroccio spetti solo il ruolo di partito gregario e subordinato: il disegno che si rivelò fatale per Berlusconi nel 1994.
Certo, i tempi sono molto diversi e soprattutto Matteo Salvini non è Umberto Bossi, non ha né il coraggio né l’acume politico dello storico capo della Lega dei tempi gloriosi. Ma è anche vero che qualsiasi corda, tirandola troppo, finisce per rompersi.