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Perché il referendum sulla cittadinanza è ammissibile: la decisione della Consulta per una battaglia di civiltà

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Il 20 gennaio 2025 la Corte Costituzionale deciderà in merito all’ammissibilità della proposta di referendum sul “dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana” promosso da una vasta rete di organizzazioni della società civile e che ha raccolto in poche settimane 637mila firme.

Si tratta di una proposta di referendum di enorme importanza per il nostro Paese per le ragioni che avevo già espresso su queste pagine il 18 settembre 2024; la stessa natura democratica di uno Stato viene compromessa se una parte cospicua della popolazione che in tale Stato vive stabilmente contribuendo alla sua crescita economica, sociale e culturale, non gode dello stesso trattamento degli altri cittadini anche sotto il profilo dell’accesso ai diritti politici. Ritengo sia questo il caso attuale dell’Italia che negli ultimi decenni è diventata Paese di immigrazione, con oltre 5 milioni di stranieri legalmente residenti, molti dei quali nati in Italia, a cui però la vigente legge sulla cittadinanza italiana ostacola il diritto a partecipare pienamente alla vita pubblica prevedendo tempi irragionevolmente lunghi per la concessione della cittadinanza per “naturalizzazione”, ovvero per lunga permanenza ed inserimento sociale nella comunità nazionale.

Prescindendo comunque da ogni altra considerazione sul valore del quesito referendario mi permetto di evidenziare di seguito alcune delle ragioni giuridiche che a mio modesto parere rendono il quesito referendario perfettamente ammissibile da parte della Corte Costituzionale. Innanzitutto è pacifico che l’oggetto del referendum, ovvero l’abbreviazione dei tempi di concessione della cittadinanza per naturalizzazione costituisca un’espressione della sovranità statale senza che intervenga sul punto alcun vincolo derivante dall’ordinamento internazionale o dal diritto dell’Unione Europea (diversamente il referendum non sarebbe ammissibile).

I quesiti referendari sono, come noto, due: il primo contiene una richiesta di abrogazione totale della lett. f) del comma 1 della L. 5.2.1992 n. 91 che prevede che siano decorsi 10 anni di residenza legale in Italia per inoltrare la richiesta di concessione della cittadinanza italiana ai cittadini di Stati non appartenenti all’UE. Il secondo quesito contiene la richiesta di abrogazione parziale della lett. b) del medesimo comma 1 in modo tale che il requisito dei cinque anni di residenza legale in Italia per presentare richiesta di naturalizzazione ricomprenda tutti i cittadini maggiorenni di Stati non appartenenti all’UE, e non solo coloro che sono stati adottati da cittadini italiani. I due quesiti sono strettamente connessi tra di loro, e sono pienamente rispondenti al requisito della giurisprudenza costituzionale che impone piena non ambiguità al quesito in modo che il corpo elettorale abbia “la possibilità di una scelta chiara” (sent. n. 39/1997). In caso di vittoria del referendum la nuova disposizione normativa che ne scaturirebbe è infatti immediatamente auto applicativa, ovvero non si crea alcun vuoto normativo nella materia della cittadinanza.

La giurisprudenza costituzionale sull’ammissibilità dello strumento referendario ha sempre evidenziato come “abrogare non significa non disporre, ma disporre diversamente” (sent. n. 15/2008) ed è pacificamente ammissibile un quesito referendario la cui approvazione abbia “come effetto naturale e spontaneo la ricomposizione del tessuto normativo rimanente” (sent. n. 15/2008). Il quesito referendario non mira affatto ad introdurre nell’ordinamento una normativa estranea al presente tessuto normativo (ciò sarebbe in contrasto con la inderogabile natura abrogativa del referendum nell’ordinamento giuridico italiano) bensì la normativa sulla cittadinanza che deriverebbe dalla vittoria referendaria non farebbe altro che inserirsi pienamente nel perimetro di scelte già operate dal legislatore attraverso una sorta di ri-espansione di una disposizione (quella sugli anni necessari ad accedere alla procedura di naturalizzazione) che è già presente nell’ordinamento ma la cui applicazione è stata limitata solo ad alcune categorie di persone; già oggi, infatti, la legge prevede il diritto di chiedere la naturalizzazione dopo cinque anni di residenza per i maggiorenni adottati da cittadini italiani, per i titolari dello status di rifugiato e per gli apolidi, oltre a prevedere il termine di quattro anni per i cittadini di altri Stati membri dell’Unione Europea.

In un Paese dalla scarsa memoria storica come l’Italia sono molti coloro che dimenticano (o fingono di farlo) che il periodo di cinque anni di residenza per chiedere la naturalizzazione da parte del cittadino straniero è stato per lunghissimo tempo il termine ordinario previsto dall’ordinamento per tutti gli stranieri; per la precisione così è stato dal lontano 1912 fino al 1992 (oltre 80 anni) quando, con scelta assai criticabile, la l. 91/92 operò una differenziazione tra categorie di stranieri. Attraverso l’abrogazione parziale voluta dal quesito referendario verrebbe ristabilita parità di trattamento senza alcun pregiudizio nei confronti di quelle categorie di stranieri non cittadini di uno Stato UE per i quali tale termine è già valido oggi. La fondatezza della tesi che la modifica voluta dal quesito referendario non determina alcun assetto normativo radicalmente nuovo emerge anche dal fatto che tutti gli altri profili e requisiti previsti dalla legge vigente connessi all’acquisizione della cittadinanza per naturalizzazione non sono affatto oggetto del quesito referendario; in particolare la natura concessoria del procedimento, le condizioni e i requisiti necessari (reddituali, di conoscenza della lingua italiana, di assenza di precedenti penali ostativi, adempimento degli obblighi fiscali).

Ritornando ora in conclusione ad una personale valutazione sul valore di questo referendum, evidenzio come portando a cinque anni il periodo richiesto per attivare la procedura di concessione della cittadinanza per i cittadini di Stati non appartenenti alla UE l’Italia si allineerebbe a quanto oggi già previsto nei paesi europei più aperti e dinamici come la Francia, la Germania, il Regno Unito (quando già faceva parte dell’UE) il Belgio, i Paesi Bassi, il Portogallo, il Lussemburgo, la Svezia. La modifica normativa permetterebbe anche di superare in gran parte il viziato dibattito sulla concessione della cittadinanza ai minori figli di stranieri, ma la cui vita è profondamente radicata in Italia (quasi 900.000 sono gli studenti stranieri nelle nostre scuole, nonostante il 65% di loro sia nato in Italia secondo i dati del Ministero dell’Istruzione). Per effetto della velocizzazione dell’acquisizione della cittadinanza ottenuta dai loro genitori in tempi più brevi, se il quesito referendario vincerà, tanti minori, oggi forzatamente stranieri, diventerebbero automaticamente italiani come è giusto (ed utile al Paese) che sia.