La terza età negata
L’Italia abbandona i suoi anziani: i rimedi ci sono già ma la politica fa finta di niente
La legge 33 del 2023 ha ridefinito le modalità di assistenza per gli over 65: dal cohousing alla convivenza in strutture sono molte le soluzioni individuate dalle nuove norme, ma a parte piccoli progetti in periferia le istituzioni dormono
Cronaca - di Fabrizio Mastrofini
Come si “cura” la solitudine degli anziani? Se facciamo la domanda a Mons. Vincenzo Paglia, che ha dato un contributo decisivo alla ideazione, elaborazione e stesura della nuova legge per l’assistenza (la 33/2023), abbiamo una risposta precisa: coabitazione, convivenze “familiari”, assistenza in casa per gli anziani autosufficienti o parzialmente tali, grazie ad una rete capillare sul territorio.
La buona notizia, direte voi, è che abbiamo una legge che rappresenta una grande opportunità per affrontare un’emergenza che vede già 10 milioni di persone vivere da sole (numero destinato a salire con il calo delle nascite). In tutto gli ultra 65enni sono 14 milioni in Italia, Un popolo. La meno buona notizia, diciamo noi, è che la sperimentazione avviata dall’anno scorso, per portare la legge a regime, procede lentamente.
Torniamo al dettaglio dei numeri. Abbiamo quasi 10 milioni di persone (9.858.000 per la precisione) che vivono sole (nuclei unipersonali). E sebbene gli anziani (over 65) rappresentino il 31% del totale per oltre 3 milioni, cresce in modo importante anche la rappresentanza delle persone tra i 55 e 64 anni (oltre 2 milioni) e tra i 45 e 54 anni (poco meno di 2 milioni). Per quel che significa la percezione che si ha della solitudine, i dati Istat del 2023 ci dicono che quasi 2 milioni degli anziani over 75 in Italia dichiarano di sentirsi soli “spesso” o “sempre”. E circa un anziano su cinque (2,8 milioni, dunque) dice di non avere nessuno con cui confidarsi o su cui contare in caso di bisogno.
E quindi, se interpellassimo mons. Paglia, ci sentiremmo dire che a questo punto servono – anzi: sono indispensabili – delle forme nuove di convivenza, che consentano alle persone anziane di poter comunicare a vivere insieme. Si chiama “cohousing” e prevede dei nuclei abitativi formati da anziani, anche senza rapporti di parentela tra loro, che si uniscono in appartamenti evidentemente adeguati per spazi disponibili, per potersi dare un aiuto reciproco. La legge in questione prevede tali forme in modo specifico all’art. 15. Già abbiamo in diverse zone del paese e in diverse città, case, case-famiglia, gruppi famiglia, gruppi appartamento e condomini solidali, aperti ai familiari, ai volontari, ai prestatori esterni di servizi sanitari, sociali e sociosanitari integrativi, nonché ad iniziative e attività degli enti del terzo settore.
Si tratta di rovesciare il paradigma “anziano=solo”. Si tratta di concepire la vecchiaia come un nuovo inizio, come una nuova opportunità di vita in un ambiente “familiare”: è la scelta di unirsi in piccoli gruppi per vivere assieme l’ultima stagione della vita. Una vecchiaia felice, dice mons. Paglia, rende felice l’intera società.
All’ottimismo arcivescovile, fa da contraltare la lentezza con cui si sta implementando la prima applicazione della legge. Hanno cominciato alcuni comuni dell’Alto Lazio, adesso a quanto pare si procede in alcune zone di Milano e a Roma tra Tor Vergata e Tor Bella Monaca. Partendo dalle periferie – i luoghi privilegiati da papa Francesco – si dovrebbe arrivare a coprire tutto il paese con una vera e propria rete di assistenza capillare. E tra l’altro dovrebbe portare, nelle intenzioni, a fornire tanti posti di lavoro per la nuova figura di operatore socio-sanitario specializzato nel settore.
Insomma qualcosa si muove. Ma servirebbe un’idea di dove stia andando nel suo insieme tutta l’Italia. Se sono in sofferenza i due estremi della forbice: i nuovi nati in calo, gli anziani in aumento (e le pensioni non si sa chi potrà pagarle…), una legge è punto di partenza. Ma sarebbe utile un dibattito sul futuro. E, magari, un’accelerazione della fase sperimentale prevista in otto anni a partire dal 2024. Un po’ troppi. O no?