La democratizzazione delle forze dell'ordine

Caso Ramy, cosa c’entra Pier Paolo Pasolini?

Quella polemica pasoliniana non serviva a contrastare le aspirazioni delle lotte studentesche, ma al contrario a sostenere che quella lotta poteva vincere solo incontrandosi con gli operai

Cronaca - di Pietro Folena

21 Gennaio 2025 alle 18:00

Condividi l'articolo

Caso Ramy, cosa c’entra Pier Paolo Pasolini?

Gli scontri e le devastazioni provocate da parte di molti manifestanti, a Bologna e a Roma, in occasione delle proteste contro l’omicidio di Ramy Elgaml, sono diventate il pretesto per imporre una nuova stretta al diritto costituzionale di manifestare e per dare mano libera – con uno “scudo penale” – alle forze dell’ordine nel non avere limiti nella propria azione di contrasto alla violenza. Intendiamoci: nulla può diminuire la responsabilità di chi programma e organizza violenze, che si scatenano contro esercizi commerciali, beni privati e pubblici. E’ stato chiarito dalla comunità ebraica di Bologna che non c’è stato alcun attacco o danno alla Sinagoga, come si era detto nelle prime ore. L’antisemitismo, tuttavia, è un pericolo presente, come aveva dimostrato, nel settembre scorso, l’iniziativa di Chef Rubio (Gabriele Rubini) che aveva incitato a segnare le case di “agenti sionisti”. Ma dobbiamo anche porci delle domande.

La prima è perché in queste manifestazioni, a quanto raccontano le cronache, al di là di alcuni professionisti del disordine, ci fossero molti studenti, e molti minorenni. La facilità con cui, durante la guerra di Gaza – sperando che la tregua annunciata in queste ore si faccia, e che termini la barbarie degli ultimi sedici mesi, iniziata dalle stragi compiute da Hamas – si è etichettata ogni protesta contro i bombardamenti israeliani, le stragi di civili e di innocenti, fra i quali migliaia e migliaia di bambini, come “Pro Pal”, ha chiuso in un recinto ideologico soprattutto i settori più radicali del movimento. C’è una generazione di giovani e giovanissimi – molti dei quali figli di immigrati – che si sente esclusa, non rappresentata, senza voce, senza alleati, senza maestri. Anche nelle occupazioni delle scuole, nell’autunno scorso, erano passate molte parole d’ordine radicali. Possiamo considerare la generazione che protesta violenta o perduta? O non dobbiamo chiedere alla sinistra e alle forze democratiche di saper dialogare e interloquire con essa e di aiutarla a costruire una visione del mondo e una cultura politica, anche quando non si condividono in parte o del tutto certe posizioni? Tutto questo non c’è stato, e la politica appare troppo spesso arroccata nei palazzi delle istituzioni. Occorre sporcarsi le mani, mettere l’orecchio a terra e ascoltare il mondo, discutere e confrontarsi.

La seconda domanda riguarda le forze dell’ordine. Stiamo assistendo, dopo decenni di battaglie per la loro democratizzazione condotte dalla sinistra, e per un ruolo “civile” degli agenti – in altri paesi europei il comportamento della polizia è ben più duro di quanto non sia in Italia – ad una pericolosa regressione. Il primo segnale, giunto il centrodestra al governo, fu nel 2001, con le giornate nere di Genova e la vera e propria sospensione dello stato di diritto, con torture e maltrattamenti indegni di una democrazia. Ora assistiamo a qualcosa di più sistematico. Non mi riferisco ad un orientamento della maggioranza dei poliziotti e dei carabinieri, ma all’ input politico che viene dal Ministero dell’Interno e dalla destra al Governo. Il caso Ramy, i recenti atteggiamenti razzisti nei confronti di alcuni atleti neri, le violenze poliziesche contro gli studenti delle superiori lo scorso anno a Pisa, i gravissimi atti di Brescia, dove alcune operaie che protestavano per il diritto al lavoro sono state costrette a spogliarsi in commissariato, e molti altri atti, grandi e piccoli, ci dicono che è necessario allarmarsi.

Cosa possono pensare gli studenti del fatto che la Questura di Roma permetta lo svolgimento di un raduno di cinquecento fascisti, inquadrati in schema da combattimento, col saluto romano, ad Acca Larentia, e che l’unico fermato in quell’occasione sia un giovane che manifestava apertamente la sua indignazione costituzionale e antifascista? Occorre un’iniziativa forte e risoluta, coi sindacati democratici delle forze dell’ordine, portandoli a discutere nelle scuole coi ragazzi, contro questa sorta di “liberi tutti”, di venir meno di regole e di limiti che vengono proposti oggi, in particolare con lo “scudo penale” per le violenze delle forze dell’ordine. Una democrazia è forte quando contrasta la violenza e l’illegalità sempre dentro e non oltre i limiti della Costituzione e di uno stato di diritto. Viene spesso rievocato, quando si parla di studenti e di polizia, il Pier Paolo Pasolini de “Il Pci ai giovani”, dopo gli scontri del 1968 a Valle Giulia. Il senso di quella polemica – oltre a ricordare che poliziotti e carabinieri sono lavoratori, e figli del popolo – non era quello di contrastare le aspirazioni delle lotte studentesche, come aveva notato anni fa lo storico Giovanni De Luna. Ma quello di sostenere che quella lotta poteva vincere solo incontrandosi con gli operai, e il loro Partito. Pasolini stesso, del resto, reagì alla strumentalizzazione delle sue parole, e nel 1969 accettò di fare con i giovani di Lotta Continua un film dopo la strage del 12 dicembre, la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli e gli eventi che seguirono. Pasolini, in sostanza, diceva ai ragazzi: incontratevi e alleatevi con gli operai, e con chi li rappresenta. Non è forse oggi questo il problema? Dov’è quel partito che li rappresenta e poi, come fece Luigi Longo nel 1968, sa discutere a viso aperto coi giovani?

21 Gennaio 2025

Condividi l'articolo

POTREBBE INTERESSARTI ANCHE