Una giustizia solidale
A cosa serve la pena senza riparazione: l’alba di una giustizia solidale
Ha incassato il primo sì il ddl costituzionale che inserisce la tutela della vittima di reato nella Carta, ma prevede anche un quorum per introdurre nuove pene o reati. Oggi lo Stato promuove per tutti programmi di riparazione, offrendo alle vittime o alla società obiettivi concreti di ricevere ristoro.
Giustizia - di Massimo Donini
In un tempo nel quale non si può leggere un giornale se non si acquisisce qualche conoscenza penalistica, ha un senso concreto cercare di spiegare alcune innovazioni attuali in materia di uso della sanzione punitiva pubblica. Che si tratti di capi di Stato (prima, durante o dopo l’immunità per essi prevista, durante il mandato) o di ministri, di parlamentari o di imprenditori, di amministratori pubblici, di comuni cittadini di ogni classe sociale, siamo tutti soggetti al sindacato giuridico dei poteri, dei doveri, delle condotte, pubbliche e private. Questo sindacato è spessissimo di tipo penale, nazionale o persino internazionale.
Che poi la pena si applichi in modo discontinuo o differenziato, con disuguaglianze sia in astratto e sia soprattutto in concreto, anche per classi sociali, è questione diversa che si potrà commentare in altro momento. Potenzialmente nessuno ne resta escluso. Non solo. L’estensione della legislazione penale è tale che nessuno può dire serenamente di non aver commesso un qualche reato (basta una spinta perché si configuri una percossa, o una maldicenza diffusa perché ci sia diffamazione, o una disonestà nel commercio perché si entri nel rischio dei reati patrimoniali o di quelli economici) o di non poterlo commettere.
Una volta questa universalità apparteneva alla morale. Oggi anche al diritto. La cultura collettiva, la formazione scolastica stessa dovrebbero prendere atto di ciò. Ci sono molti warning. Tutta la storia potrebbe essere riletta attraverso questo paradigma: sarebbe culture cancel o riappropriazione del passato? Porci questa domanda è oggi inevitabile. L’uso pubblico delle sanzioni punitive può essere limitato a quelle civili e amministrative che non presentano nessuna o scarsa forza censoria, anche se sono spesso più risolutive ed efficaci di quelle penali. Le sanzioni penali, invece, possono permettersi di non servire a nulla che non sia la soddisfazione pubblica o privata, “espressiva” di biasimo e sofferenze aggiunte, che vendicano in modo proporzionato un male commesso. Anche giudici costituzionali (ma non la Corte) si esprimono oggi a favore della tutela dell’«istintivo» bisogno di “giustizia” delle vittime, quale recupero dell’identità dell’intervento punitivo dello Stato a favore dei loro diritti. I politici, poi, lo ribadiscono spesso. Siamo così circondati da bisogni e istinti punitivi, che i media riflettono impietosamente.
Di fronte a questo invasivo apparato emotivo-concettuale che non esprime nulla di nuovo rispetto a quanto sappiamo da secoli, cerchiamo invece di indicare alcune novità che possono riportare razionalità e davvero giustizia nella risposta punitiva, anche a favore delle vittime. Di recente ha avuto il primo sì il disegno di legge costituzionale che inserisce la tutela della vittima di reato nella Carta fondamentale, ma prevede anche un quorum qualificato dalla maggioranza assoluta degli aventi diritto di ciascuna Camera per introdurre nuove pene o reati. Dentro a questo scenario diventa fondamentale recuperare una base razionale, e non istintuale, alla risposta sanzionatoria, attraverso l’idea riparativa. Non ci deve mancare la compassion, e neppure la pietas, che sono tuttavia ben altro dalla voglia di restituire il male subìto.
La vittima non ha diritto al castigo, ha diritto a una protezione anticipata, ma poi, a illecito compiuto, ha diritto al suo accertamento, alla riparazione e al risarcimento. Il castigo è dello Stato (l’assunto ricorda perfino la famosa frase di Jahvè nel Deuteronomio: la vendetta è mia). Il suo c.d. bisogno di giustizia dissimula troppo spesso un istinto di vendetta che il monopolio della forza nei poteri dello Stato garantisce che sia tenuto sotto controllo. I tribunali, infatti, sono idealmente stati istituiti per controllare la vendetta, come esemplarmente descritto da Eschilo nelle Eumenidi, in una tragedia per nulla letteraria che riguarda l’essenza della pena tradizionale come risposta vendicativa in un ciclo di sangue che le Erinni possono perpetuare senza fine. Anche la proporzione della pena, categoria oggi rediviva nei pensieri ripetitivi dei giuristi, non ci libera affatto dalla reazione vendicativa, perché la limita soltanto, conservando le sue radici nel profondo della sua essenza compensativa. Dato che la proporzione serve a limitare il castigo, la conserviamo tra i ferri del mestiere. Ma senza innamoramenti, perché nella misura “giusta” non c’è l’anima della giustizia: c’è lo spirito del male aggiunto, il suo veleno che non ripara ma disseta Aletto, Megera e Tisifone.
Quando quel veleno diventa davvero razionale e benevolo, anche se affligge? Quando la sua base commisurativa, il punto di partenza sono il valore del danno (il “danno fatto alla Nazione”: Beccaria) e l’entità dell’offesa agli interessi protetti: non la colpa. Invece, la colpa come colpevolezza è categoria del rimprovero, dal quale l’ordinamento, nella sua umanità, deve proteggere le persone accusate. Una intera categoria culturale presente nella letteratura scientifica e universitaria, la colpevolezza/Fault/Schuld, col suo rimprovero/Blame/Vorwurf, ha ottenebrato le menti dei giuristi, facendo loro credere che sia possibile entrare nell’anima del reo, come preti e psicologi. Ma il giudice di regola non sa niente dell’anima nel corso del giudizio penale, perché la colpevolezza interiore non si accerta. Eppure, la si vorrebbe misurare. Per alcuni è il fondamento della pena, per altri un limite.
In realtà si accertano gli elementi soggettivi del dolo e della colpa, oppure le cause scusanti come vizi di mente, costringimenti psichici, impossibilità di conoscere la legge etc. Invece la colpevolezza interiore è mescolata e confusa con la prova eventuale (non indispensabile) dei moventi, con giudizi sul tipo d’autore dovuti alla sua vita anteatta, ai suoi precedenti etc. La si dovrebbe fissare in un ultimo fotogramma, che è quello della consumazione del reato. Se la condotta risale al giorno x dell’anno 2025 e il dibattimento si celebra due, quattro anni o sei anni più tardi, tutto quello che è accaduto dopo la condotta del giorno x non cambia la colpevolezza, anche se può mutare il giudizio sulla meritevolezza di pena per il fatto che la persona è cambiata, ha neutralizzato le conseguenze dannose o pericolose del reato, si è riconciliata con la vittima, o ha svolto percorsi incompatibili con l’illecito commesso a suo tempo.
Dunque: la colpevolezza, categoria di incertissimo contenuto scientifico, non può definitivamente inchiodare la persona a un giudizio solo sul passato, perché la pena riguarda il suo presente e il suo futuro. Il rimprovero, poi, categoria non scientifica, ma psico-sociale e antropologica, riflette giudizi di valore dai quali il magistrato è in realtà tenuto ad astenersi. Invece tutto cambia se si parte da dati oggettivi costituiti dal danno o dal pericolo conseguenza del fatto e dalla situazione sociale e personale dei rapporti del responsabile con la vittima e la società. Oggi lo Stato promuove per tutti, anche per chi ha commesso un delitto imperdonabile o dal quale non si può tornare indietro, programmi di riparazione, riconciliazione, sanatorie, condoni, collaborazioni, offrendo alle vittime o alla società obiettivi concreti di ricevere ristoro, risarcimento, di recuperare beni o prestazioni, vantaggi, di ritrovare se vogliono una relazione che non le separi per sempre in un lutto o in un rancore definitivo.
La pena non è cancellata, se non in qualche caso, ma può essere diminuita. Tuttavia, l’obiettivo è di offrire alle vittime, o comunque alla collettività, prestazioni, ristori, ricostruzioni, recuperi, bonifiche, risanamenti, e agli autori un riscatto umano. Queste prestazioni sopravvenute non sono più lasciate a iniziative estemporanee, non sono eventualità private, meri oneri. Anche se non c’è nessuna costrizione (di regola), esse diventano un programma di Stato. Inusitato. C’è voluto un po’ di tempo perché le stesse istituzioni capissero quello che stavano preparando, che non era il prodotto di una parte, di qualche governo, ma si evolveva per accumulo di regole e istituti, e resisteva al mutar delle coalizioni. La panpenalizzazione, che l’introduzione di un quorum per approvare le leggi penali dovrebbe limitare, ha reso ancora più urgenti progetti orientati al sociale, alle conseguenze e non a finalità espressive del mero bisogno sociale di soddisfazione istintiva di vendetta.
Attualmente lo Stato offre e sostiene due paradigmi riparatori a chi ha commesso un reato: 1) la riparazione dell’offesa, con neutralizzazione del danno o del pericolo (molti reati sono solo di pericolo e senza vittima individuata, offese a interessi collettivi, istituzionali, economici di impresa ecc.), forme di risarcimento, sanatorie, condoni, collaborazioni processuali, ecc.; 2) la c.d. giustizia riparativa basata sulla mediazione tra autore e vittima fuori del processo, con l’obiettivo di una riconciliazione e prestazioni riparatorie anche simboliche. Sono due forme diverse, una più prestazionale e forse anche laica, del tutto tradizionale e collaudata, da vari anni ampliata a tanti istituti e reati ad impatto processuale e sanzionatorio molto definiti; e una più coinvolgente le persone in carne ed ossa, la loro storia, attraverso una riparazione interpersonale: la restorative justice programmata anche in tanti documenti internazionali e massicciamente regolamentata dalla riforma Cartabia, che ha ancora una attuazione processuale a lento sviluppo, ma presenta un volto umanistico innegabile.
Queste due forme di riparazione rappresentano insieme la più grande novità per l’istituto della pena degli ultimi decenni, insieme alle pene alternative al carcere: ancor più rilevanti di queste, tuttavia, perché mirano decisamente a una pena agìta e non solo subìta, e a un nuovo modello di giustizia penale, che non intende semplicemente raddoppiare il male del reato con il male della pena, ma offrire ai tre protagonisti del conflitto, autore, vittima e società, una risposta positiva di recupero dei rapporti con effetti concreti, anche materiali e non solo ideali, diversi dalle ben più incerte misurazioni della colpevolezza e del rimprovero.
È una giustizia solidale, che esprime solidarietà e non semplicemente condanna. Anche prestazioni a favore della collettività, o la neutralizzazione di situazioni solo pericolose, o un contributo all’accertamento di situazioni complesse, possono avere un contenuto riparatorio in senso lato del reato e un effetto risocializzativo per fatti di per sé irreparabili in senso stretto, sì da allargare moltissimo lo spazio applicativo di vari istituti ai tantissimi reati senza vittima esistenti. Riflettere su queste nuove dimensioni della pena che si aprono all’orizzonte significa cominciare a diffondere una diversa cultura del penale, che si potrebbe anche insegnare nelle scuole medie, e non solo in quelle per le professioni legali. Di un simile progetto culturale parleremo ancora, perché siamo solo all’inizio di una speranza e non nella tradizione della vendetta collettiva.