Il discorso di insediamento

Così il fascista Donald Trump ha demolito il tabù dell’America democratica

Ora il problema è questo: esistono in America, e nel resto dell’Occidente, forze in grado di opporsi a Trump, di ostacolarlo, di costringerlo ad arretrare? O davvero dobbiamo aspettarci che il fascismo che non attecchì nel mondo anglosassone nella prima metà del novecento si prenda la vendetta e dilaghi nell’America del secolo successivo?

Esteri - di Piero Sansonetti

22 Gennaio 2025 alle 14:30

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AP Photo/Evan Vucci
AP Photo/Evan Vucci

Ascoltare il discorso di insediamento di Donald Trump è una esperienza sconvolgente. Difficile ricordare, in questo dopoguerra, dichiarazioni così radicalmente reazionarie. Forse gli unici precedenti sono Pinochet o Videla. Trump ha annunciato una serie di azioni, che si ripromette di compiere, di natura nitidamente fascista. Sia nella forma che nella sostanza. Per quel che riguarda la forma, annunciare un centinaio di executive order vuol dire promettere la sospensione della democrazia parlamentare.

Cosa è l’executive order? Un provvedimento di legge che entra in vigore, per ordine del Presidente, senza passare dal Congresso. Per la verità l’Ordine esecutivo non è previsto dalla Costituzione americana. Non era nelle menti dei padri costituenti che avevano un’idea più blindata della democrazia e del Parlamento. Però quasi tutti i presidenti americani hanno fatto largo uso di questo strumento, dichiarato ammissibile dalla Corte suprema, ma non previsto da alcuna legge. Nessun presidente però si è sognato di firmare nei primi giorni del proprio mandato un numero così alto di executive order e soprattutto di ordini che prevedono lo sconvolgimento di tutto l’impianto politico, del welfare, della politica, della giustizia, della convivenza civile. È chiaro che un Congresso a maggioranza repubblicana (seppure risicata) che si trova di fronte a questa “tempesta” di executive orders, vede praticamente annullata la propria funzione.

Per quel che riguarda la sostanza, se si scorre l’elenco delle principali iniziative annunciate, risulta evidente che il nuovo presidente intende cancellare secoli di avanzamento e di conquiste della democrazia americana. Solo qualche esempio. Annunciare la deportazione di milioni di persone è in contrasto con tutta la storia degli Stati Uniti. Calpesta lo spirito americano. Ed è il ribaltamento di valori essenziali, del pensiero, della politica e persino del linguaggio. Da Lincoln, a Roosevelt, ma anche a presidenti di destra come Nixon o Bush. Il termine deportazione usato in senso positivo fa rabbrividire. Pensate che Bill Clinton giustificò la guerra alla Serbia accusando Milosevic di deportazione di migliaia di croati. E a quella iniziativa di Clinton si associarono i repubblicani. E anche le socialdemocrazie europee che consideravano le deportazioni il massimo dell’infamia da parte di un regime.

Poi c’è l’abrogazione di tutte le leggi sulle cosiddette “affirmative action”. Cioè quelle misure, entrate in vigore negli primi anni settanta sulla spinta del movimento antirazzista e di quello femminista, che avvantaggiano le minoranze per riequilibrare i molti svantaggi che le minoranze subiscono e per proteggerle dalla ferocia del mercato. C’è un fatto curioso da notare: quelle leggi non furono varate, come magari si può credere, da Kennedy o da Johnson, ma in gran parte da Richard Nixon, il presidente repubblicano finito poi nel tritacarne del Watergate, organizzato e realizzato dalla Fbi.

Del resto, Trump non ha in nessun modo mascherato la sua volontà di radere al suolo tutta la politica americana da Roosevelt in poi. Senza distinguere tra democratici e repubblicani. E lo ha fatto con un linguaggio, e persino con una gestualità, palesemente ripresi dal linguaggio e dalla gestualità dei discorsi di Mussolini dal balcone di piazza Venezia. Il gesto finale di Musk, che ha voluto salutare con il braccio teso, per rendere chiara la sua ispirazione, è stato solo il suggello della sceneggiata di Trump. L’America tornerà grande, ha gridato varie volte il Presidente. Già, grande: ma quale America? Non quella che sconfisse lo schiavismo, non quella della rivolta anti-inglese, non quella del New Deal, o della Nuova Frontiera, o della “Great Society”, non quella di Luther King, neppure quella dei grandi registi di Hollywood. Forse quella dei Cow Boy, o quella del maccartismo, sconfitta dai democratici e da Eisenhower.

Ora il problema è questo: esistono in America, e nel resto dell’Occidente, forze in grado di opporsi a Trump, di ostacolarlo, di costringerlo ad arretrare? O davvero dobbiamo aspettarci che il fascismo che non attecchì nel mondo anglosassone nella prima metà del novecento si prenda la vendetta e dilaghi nell’America del secolo successivo? Per ora l’unico a reagire è stato il papa. Che ha gridato contro le deportazioni additandole, giustamente, come un delitto. Un crimine contro l’umanità.
Per il resto silenzio, mi pare. I grandi capitalisti americani tutti lì in ginocchio, come qualche giorno fa li rappresentò Ann Telnaes, vignettista subito licenziata dal “liberal” (liberal?) Washington Post. Forse impauriti, forse alla ricerca di una benevolenza e di una possibile sottomissione. Mi sembra che anche la sinistra americana taccia. Sbigottita? E quella europea non la vedo sulle barricate.

Se questi silenzi non si ribalteranno e non si tramuteranno in grida e in azioni politiche, noi rischiamo che anche la destra europea si adegui al nuovo maresciallo, torni ad indossare la camicia nera e, per quel che riguarda l’Italia, corregga la disposizione transitoria della nostra Costituzione (quella che diceva: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”) con un piccolo emendamento: le parole “è vietata” sono sostituite da: “è auspicata”.

22 Gennaio 2025

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