Il fascino della serializzazione

Un po’ routine, un po’ avventura: perché le serie tv fanno parte della nostra vita

Sembra una tendenza contemporanea nata con Netflix, ma l’arte del racconto a puntate è vecchia almeno quanto i canti di Omero. Ripetizione e diversità caratterizzano questa forma di racconto che è quanto di più simile alle nostre esistenze. Ma non tutto è serializzabile: il trauma è estraneo a quel mondo

Cultura - di Filippo La Porta

26 Gennaio 2025 alle 09:00

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AP Photo/Julio Cortez, File
AP Photo/Julio Cortez, File

Guardando una qualsiasi serie televisiva – confesso di esserne un consumatore compulsivo – avete mai pensato che lo schema della serializzazione, ovvero ripetizione e variazione, regge qualsiasi vicenda umana? Di più, la stessa biologia, l’evoluzione della specie mostra di seguire quello schema. Aggiungo: la politica democratica, che non prevede rivoluzioni o colpi di stato, obbedisce evidentemente ad una serialità.

Da un lato la ricorsività, la continuità, il format sempre-uguale che ci rassicura – il nostro bisogno di stabilità – , dall’altro la novità, la differenza che soddisfa l’altro nostro bisogno, complementare, di avventura. In una giornata seminariale alla Sapienza, ideata dal professore di mediologia Giuseppe Ragone si è molto discusso di questo, anche sulla base di una trilogia ora uscita, Storia e teoria della serialità (Meltemi), ricca di contributi e proposte. A un certo punto, ascoltando gli innumerevoli interventi, mi sono convertito a una ontologia della serialità! Tutto mi appariva seriale, dunque ripetitivo e al tempo stesso infinitamente variato, nella mia vita quotidiana. Perfino nei sogni! Il mio campo di interessi, la letteratura, è la palese dimostrazione di questo teorema. Ma prima di esprimere qualche dubbio su questa serializzazione cosmica, soffermiamoci su narrativa e serialità, profondamente intrecciate.

Il racconto orale dell’antichità – i poemi omerici – era evidentemente seriale: per essere riprodotto aveva bisogno di formule regolari. Da lì le tecnologie del racconto seriale attraversano la storia d’Occidente, fino alla pubblicità, ai miti d’oggi, all’arte, allo spettacolo di massa che cominciò a formarsi nel barocco. La storia del romanzo moderno è poi la storia di una serialità. Pensiamo ad alcuni capolavori assoluti dell’800, che uscirono come romanzi d’appendice, cioè a puntate su quotidiani e riviste, per rispondere alle esigenze di un pubblico di lettori aumentato vertiginosamente: da Delitto e castigo a Guerra e pace, e poi Dickens, Hugo, Balzac, Flaubert, Stevenson, da noi almeno Serao, Collodi, De Marchi, Salgari. Perfino l’inespugnabile Finnegan’s wake di Joyce, il romanzo più sperimentale di sempre, uscì a puntate con il titolo Work in progress su un periodico.

Mastro don Gesualdo uscì a puntate, mentre I Malavoglia no. Però I Malavoglia sembrano pensati per una serie TV, sono il capostipite del family drama che avrà la sua consacrazione recente con Succession. Ogni capitolo finisce con una sospensione (l’espediente narrativo chiamato “cliffhanger”) e con l’annuncio di qualcosa che dovrà accadere, creando nel lettore una aspettativa, fidelizzandolo (ma questo si può dire anche per i Promessi sposi). Verga d’altra parte nasce come autore pop. I suoi modelli sono mediocri scrittori popolari e non qualche classico, viene dal basso così come gli autori delle serie TV frequentano il mondo della pubblicità e del fumetto. Aggiungo che nel lessico del fumetto di Tex Willer troviamo il “satanasso” dei Malavoglia. Certo, serializzare un giallo, poniamo anche un grande artigiano del genere come Camilleri, è assai più semplice che serializzare Gadda. La narrativa di genere è più congeniale rispetto alla letteratura alta o di ricerca. Però nemmeno la Recherche proustiana, a ben vedere, sfugge a una modalità seriale. Sarebbe un’ottima serie Netflix, anche se naturalmente nella trasposizione si perderebbe l’essenziale, e cioè la densità espressiva e l’audacia formale.

E ora vengo alla mia obiezione principale. Non tanto e solo il fatto che in ogni serialità la nostra esperienza è come preformata, e tende a escludere novità troppo dirompenti: non esiste più cioè la possibilità della perturbazione, dell’alterità, dell’incidente (come ha spiegato Emiliano Laurenzi). Eppure l’esperienza individuale del mondo si fa proprio attraverso un trauma, una deviazione dall’ordine, che ci rivela all’improvviso la verità di qualcosa. Ma il punto è che la serialità contiene un inganno, una promessa che non può mantenere. Guardando i 92 episodi di Mad Men sui pubblicitari americani degli anni 60, una delle serie più belle di sempre per qualità drammaturgica e visiva, mi sono venuti in mente due celebri versi di Rimbaud”: “È ritrovata. / Che cosa? L’eternità”. Ho pensato cioè, per un momento, che l’eternità è non finire più di guardare in TV Mad men. Non 92 soli episodi, ma 929, 9,200, 92.000, etc. etc.

La serialità televisiva è la migliore approssimazione laica al tempo eterno delle religioni. Fino alla prossima puntata sappiamo che non moriremo. Mica possiamo perdercela (l’archetipo è Sherazade, tessitrice inesauribile di storie per non morire). Però sappiamo altresì che la vita del singolo ha una fine. La partita si gioca interamente in quella combinazione di ripetizione e differenza. La serialità narrativa non riesce a immaginare la propria fine, non vuole farlo. Anzi, come il replicante di Blade Runner una volta che apprende di essere anch’essa un congegno a tempo, con una inevitabile conclusione, una serie TV vorrebbe uccidere il proprio autore! Di qui tra l’altro la debolezza di ogni finale di serie. E allora, per salvare l’esperienza, proviamo a immaginare una narrazione non serializzabile.

Ad esempio: un racconto breve, una short story è assai meno serializzabile di un romanzo. Nel racconto ritorna il rimosso – per riprendere la teoria freudiana di Francesco Orlando – ma non abbiamo il tempo di elaborarlo come invece nel romanzo: il racconto finisce un attimo prima che possiamo farlo. Ci lascia inermi di fronte al rimosso, in balia dei suoi demoni: non sappiamo bene cosa avverrà di noi. I Malavoglia e i Karamazov possiamo serializzarli, ma un racconto come Bartleby lo scrivano o La metamorfosi no. Resistono al riuso. O meglio, possiamo anche serializzarli – Bartleby protagonista di una catena di episodi in cui risponde sempre “Preferirei di no” a qualsiasi nuova richiesta, mentre Gregor Samsa in ogni episodio potrebbe risvegliarsi trasformato in un insetto diverso – , ma depotenziandoli totalmente, trasformandoli in parodia. Cari massmediologi, dovete rassegnarvi: non tutto, fortunatamente, è serializzabile!

26 Gennaio 2025

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