L'accusa della Procura di Roma

Meloni indagata per il caso Almasri: la premier grida al complotto ma il suo governo ha responsabilità politiche enormi

È stata la stessa Giorgia sui social a dare la notizia, gridando al complotto: “Non sono ricattabile”. Ma al di là del piano legale, le responsabilità politiche sono enormi

Politica - di David Romoli

29 Gennaio 2025 alle 08:00

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Foto Roberto Monaldo / LaPresse
Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Dopo una settimana spesa cercando di mettere la sordina al caso del torturatore libico Almasri, arrestato e subito liberato nonché riportato a casa con volo di Stato, la vicenda esplode più fragorosamente di come non si potrebbe. Giorgia Meloni è stata raggiunta da un avviso di garanzia per favoreggiamento e peculato nel caso del capo della polizia giudiziaria libica e torturatore inseguito da mandato di cattura internazionale Osama Almasri: arrestato il 19 gennaio, liberato il 21, riportato in Libia con aereo Falcon di Stato. L’avviso è firmato dal procuratore capo di Roma Lo Voi e con la premier sono indagati per favoreggiamento e peculato anche il sottosegretario Mantovano, il ministro degli Interni Piantedosi e quello della Giustizia Nordio.

A dare notizia dell’avviso è stata, con un video sui social e sbandierando il foglio della procura, la stessa premier. Segnala che Lo Voi è “lo stesso del fallimentare processo a Salvini”, indica l’autore della denuncia nell’avvocato Luigi Li Gotti, “ex politico di sinistra molto vicino a Romano Prodi”. Chiude il breve messaggio sfoderando l’ascia: “Non sono ricattabile. Non mi faccio intimidire. Intendo andare avanti soprattutto quando è in gioco la sicurezza della nazione”. La solidarietà degli altri due leader di maggioranza arriva a strettissimo giro ed è altrettanto battagliera. “È una ripicca per la riforma della giustizia. Sto con Meloni”, comunica sui social Tajani. Salvini, come da copione, è più ruvido: “Vergogna, vergogna, vergogna. Riforma della giustizia subito”.

L’indagine su quattro esponenti di primissimo piano del governo inclusa la stessa premier segna probabilmente l’avvio di uno scontro senza quartiere tra il governo e la magistratura, anche oltre i livelli già elevatissimi raggiunti con la riforma della giustizia e la reazione delle toghe. Il peculato dipende dall’uso dell’aereo di Stato. Il favoreggiamento nelle manovre per mettere fuori dalla prigione e dal Paese il torturatore libico. Ma al di là del punto di vista legale, la vicenda è enorme sul piano proprio, quello della politica. Lì però l’opposizione, e soprattutto il Pd, hanno volato molto bassi. Se tra le ragioni che hanno convinto il governo a cedere subito su Almasri c’era la paura che potesse scoperchiare coperchi sugli accordi ignobili tra Italia e Libia per fermare i migranti a qualsiasi costo quella paura sarebbe condivisa anche dal Pd: il primo a formare quegli accordi è stato Marco Minniti e a mantenerli, moltiplicando anzi gli aiuti alla guardia costiera libica, sono stati tutti i governi degli ultimi 10 anni.

L’avviso ha se non altro il merito di rendere impossibile mantenere oltre la congiura tesa a minimizzare e nascondere una vicenda che invece, avviso o non avviso, è enorme e politicamente deflagrante. Le sedute di oggi di Camera e Senato sul caso Almasri sarebbero comunque state incandescenti. Ora fingere che non sia successo niente non è più possibile. La presenza di Nordio in aula oggi, dopo una settimana di silenzio, è una sorpresa. Doveva esserci solo Piantedosi: un veterano. Già la settimana scorsa si era addossato il compito di rendersi ridicolo spiegando di aver deciso di rispedire a casa, tra i suoi complici, Almasri perché tipaccio estremamente pericoloso. Meglio dunque concedergli subito la possibilità di esercitare il caratteraccio in pace rimandandolo a casa, dove è stato accolto come un trionfatore.

Il ministro degli Interni era però competente per quanto riguarda il ritorno in patria, con aereo Falcon di Stato, del comandante del lager di Mitiga. Sulla sua scarcerazione, due giorni dopo l’arresto, la palla sarebbe dovuta passare al guardasigilli che però in aula non c’era e aveva tutte le intenzioni di non esserci neppure oggi. Il ripensamento è arrivato, all’improvviso e a sorpresa, lunedì sera, probabilmente su spinta della premier, che però, nonostante le opposizioni reclamassero proprio la sua presenza, ha preferito non farsi vedere di persona. In compenso ha esposto ieri, nel video, la linea di difesa che oggi ripeterà, con ulteriori alibi, Nordio. Per la premier l’errore è tutto di chi non si è rivolto direttamente al ministero, come avrebbe dovuto per chiedere l’arresto. Dunque la scarcerazione è stata inevitabile e a quel punto, in nome “della sicurezza degli italiani”, il governo ha preferito evitare che Almasri circolasse libero per le strade d’Italia.

La premier glissa su molti particolari. Il parere di Nordio, che avrebbe risolto il problema della richiesta di arresto “irrituale”, era stato chiesto dalla procura di Roma il 20 gennaio. A decidere di non comunicarlo è stato il guardasigilli. Oggi affermerà di averlo fatto per non ledere l’autonomia della magistratura, ma è un alibi di carta velina. Anche il ministro degli Interni aveva strumenti in quantità a disposizione per evitare di rmandare subito a casa il libico ma ha scelto di non adoperarli. Che la premier fosse all’oscuro delle decisioni dei suoi ministri, in un caso così potenzialmente esplosivo, è fuori discussione ed è possibile che oggi in Parlamento le opposizioni si decidano a dare battaglia davvero. Almeno la responsabilità di Nordio è infatti chiara: all’origine della scarcerazione c’è la sua scelta di non rispondere alla richiesta della Procura di Roma inviando il suo “parere”.

Le dimissioni, in un caso del genere, dovrebbero essere quasi automatiche. Quando nel 1977 il criminale nazista Herbert Kappler riuscì a evadere dal carcere militare del Celio, molto probabilmente con la complicità dei servizi segreti e dello stesso governo dell’Italia, il ministro della Difesa Lattanzio rassegnò comunque subito le dimissioni. Quando la fuga del terrorista di Prima Linea Marco Donat-Cattin mise a forte rischio la tenuta del governo Cossiga, nel 1980, il padre del terrorista Carlo, sospettato di averlo avvertito dell’imminente arresto, si dimise subito dall’incarico di vicesegretario della Dc. Stavolta l’esercizio dello scaricabarile e delle scuse per nascondere quella che è stata in tutta evidenza una scelta politica mira a salvare tutti. Se l’opposizione, nonostante gli scheletri nell’armadio del Pd, uscirà dall’inerzia dell’ultima settimane il gioco potrebbe non riuscire.

29 Gennaio 2025

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