Il vertice per concordare la strategia
Così Meloni vuole uscire dal caso Almasri: la strategia del governo
Meloni l’aveva già anticipato nel video sui social: di fronte alle gravissime responsabilità del governo, ha concordato con i suoi di tuonare contro “il complotto della magistratura”. Intanto scatta lo stop ai lavori parlamentari
Politica - di David Romoli

La senatrice Giulia Bongiorno ha due doti utili: è un’avvocatessa brillante e non viene dalle file di FdI, come tre dei governanti indagati su 4, né è almeno formalmente indipendente come il quarto. Il vertice di guerra riunito in mattinata a palazzo Chigi per mettere a punto la strategia nella nuova battaglia contro la magistratura, conviene sul fatto che sia quindi perfetta per difendere tutti e quattro gli iscritti nel registro degli indagati: la premier, i ministri Nordio e Piantedosi, il sottosegretario Mantovano. Non garantisce solo un ottimo lavoro ma, come non mancano di far notare a più riprese da Palazzo Chigi, testimonia anche la solida compattezza di una maggioranza che stavolta è davvero priva di incrinature.
Più di questo il consiglio di guerra, ossia il vertice di maggioranza con Meloni, Tajani, Salvini e ministri vari non fa. Di impostare una strategia non c’è alcun bisogno. Ci ha già pensato Giorgia, senza aspettare vertici di sorta, col video col quale martedì pomeriggio ha dato per prima notizia dell’indagine e che ieri riproduce in un’apposita nota tanto per chiarire che la notte non le ha portato alcun consiglio: “Non sono ricattabile. Non mi faccio intimidire. Nessun passo indietro”. L’aspetto paradossale è che il passo indietro che è decisa a non fare non glielo chiede proprio nessuno. L’Anm strilla anzi che non c’è nessun avviso di garanzia e che l’iscrizione in quel registro era imposta dalla legge. Nulla di cui preoccuparsi, insomma.
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A drammatizzare, all’opposto di quel che succede abitualmente, sono gli indagati e davvero non s’era mai visto prima. Ma la bizzarria è solo apparente. La strategia dettata dalla leader della destra non è difensiva: è un contrattacco in grande stile. Serve in vista dello showdown sulla separazione delle carriere, certo, ma quella è storia di domani. Al momento la denuncia di un assedio del governo da parte della magistratura, che in questo caso in realtà non c’è soprattutto perché il potere togato non ne ha la forza, serve soprattutto a tenere sulla corda i magistrati su faccende più puntuali. Come il giudizio della Corte d’appello sul nuovo trasferimento di migranti in Albania, atteso entro un paio di giorni.
Non significa, sia chiaro, che la premier non sia davvero furiosa forse come mai prima e avvelenata con la procura di Roma. Lo è. Non significa neppure che non tema il complotto: si sa, è sospettosa ai confini della paranoia. Teme davvero. Ma Meloni è anche una politica abbastanza scaltra da vedere l’occasione che il guaio pur le offre e da muoversi per coglierla subito. Uno scudo che le permetterà di denunciare la trama politica ogni volta che il potere togato proverà a sbarrarle il passo su questo o quel fronte. Ma anche la possibilità di alzare un clamore tanto assordante da cancellare il vero problema enorme del governo: lo scandalo della liberazione del criminale libico Almasri. Più gli sguardi si concentrano sulla solita guerra tra politici e toghe meno resteranno appuntati sull’enormità dello sconcio servizio reso dal governo italiano alla Libia come parte del salario per il lavoretto che sbriga nel tenere lontani dalle coste italiane i migranti, poco importa se tenuti nei lager, torturati, uccisi, ridotti in schiavitù. Purché non partano.
Ma l’inchiesta, da questo punto di vista, è un rischio serio. L’opposizione sin qui si era mostrata docile, anche perché di panni sporchi quanto a accordi con i torturatori e gli assassini libici ne hanno davvero tutti. Con il fragore e i riflettori puntati in seguito all’inchiesta però le cose cambiano. In Parlamento lo si vede subito. I capigruppo d’opposizione insorgono contro la decisione dei ministri Nordio e Piantedosi di disertare le informative in aula fissate per ieri pomeriggio. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento Ciriani si offre di sostituirli ma va da sé che non è la stessa cosa. La segretaria del Pd Schlein, poi, non si accontenta neppure dei due ministri più direttamente coinvolti. Vuole che a riferire sia la premier e ha ragione perché la responsabilità principale non può che essere sua.
Il braccio di ferro prosegue nella conferenza dei capigruppo. Quelli d’opposizione si dicono indisponibili a proseguire i lavori parlamentari finché non si sarà svolta l’informativa cancellata con un colpo di mano ieri. Ciriani giura che il governo “non fugge”, che l’informativa “si terrà appena possibile” ma i ministri sotto inchiesta hanno bisogno di tempo per decidere cosa fare. Anche per rispetto del segreto istruttorio, come sostiene ineffabile anche il ministro Nordio. Al presidente La Russa non resta che congelare tutto per quattro giorni, fino a martedì prossimo, quando il governo si è impegnato a comunicare la data dell’informativa e i nomi degli informanti.
Poco dopo la medesima scena si ripete alla Camera e il congelamento fa saltare la seduta congiunta per tentare di nominare i giudici costituzionali vacanti: “Non mi pare che ci sia il clima adeguato per cercare un’intesa”, chiosa definitivo Ciriani. Le sedute di Camera e Senato si svolgeranno la settimana prossima. L’opposizione, sin qui, è stata quasi inesistente. Ora ha l’occasione per dare battaglia davvero non su una delle tante campagne propagandistiche messe in fila negli ultimi due anni ma su una vicenda di gravità inaudita. Può adesso prendere la gravissima vicenda sul serio e tenere duro fino a ottenere almeno le dimissioni del ministro Nordio. Forse a questo punto lo farà davvero.