Parla l'economista
Intervista a Emiliano Brancaccio: “Caso Montepaschi? Il sovranismo bancario è una bufala”
“La destra presenta l’assalto lanciato da Mps su Mediobianca come un atto di difesa della ‘nazione’ dai francesi, ma dietro c’è solo l’interesse capitalistico di pochi affaristi. Il terzo polo bancario è un vecchio pallino di Caltagirone e sodali...”
Interviste - di Umberto De Giovannangeli

“Il sovranismo bancario è una bufala”. Parola di Emiliano Brancaccio, il “banchiere rosso” che si oppose alla disastrosa acquisizione di Antonveneta da parte del Montepaschi. E che ora critica l’assalto dell’istituto senese e del governo a Mediobanca. Per servire l’interesse generale, spiega, c’è bisogno di quella che il Fmi definisce “repressione finanziaria”. I circoli della grande finanza globale sono in subbuglio: le acquisizioni e le fusioni bancarie sono tornate di moda e l’Italia non fa eccezione. Dopo i tentativi di Unicredit di prendere Commerzbank e Banco Bpm, tocca ora al Montepaschi che lancia un’offerta su Mediobanca. L’operazione ha scatenato un braccio di ferro tra i principali gruppi privati nazionali, con il governo Meloni in un ruolo tutt’altro che imparziale. Ma quali sono le cause profonde del nuovo risiko bancario? E quali gli effetti per l’economia italiana? Ne parliamo appunto con l’economista Emiliano Brancaccio dell’Università Federico II, che oltre ad essere esperto riconosciuto dei fenomeni di centralizzazione dei capitali è stato anche un insider della realtà di Montepaschi.
Professor Brancaccio, se le dicono che oltre a essere un fiero antagonista teorico dei premi Nobel è stato anche un “banchiere rosso”, se la prende o le fa piacere?
Mi sembra una definizione un po’ pittoresca, ma se con ciò si vuole intendere qualcuno che ha cercato di servire solo l’interesse pubblico e non ha ottenuto alcun vantaggio personale da quella esperienza, la trovo veritiera e non ho da obiettare.
Nel 2008 lei fu tra i pochissimi consiglieri di amministrazione del gruppo Montepaschi a criticare l’acquisizione di Antonveneta, un errore strategico di cui la banca senese e i contribuenti italiani ancora oggi pagano il conto. Lei la definì un’operazione speculativa fuori tempo massimo. Ma non la ascoltarono.
Va ricordato che il governo dell’epoca e la grande stampa erano favorevoli all’operazione. Eppure era chiaro che Montepaschi stava comprando a prezzi troppo alti. Dissi che il gruppo si stava comportando come un “rialzista” ubriaco che giunge in ritardo alla festa, e che dunque compra nel momento in cui la bolla speculativa sta ormai per scoppiare. Restai vox clamantis in deserto ma i fatti successivi mi diedero ragione.
Su spinta di Caltagirone e Del Vecchio e con il sostegno di Meloni e Giorgetti, adesso Montepaschi tenta l’assalto a Mediobanca. L’attuale vertice di Mediobanca la reputa un’operazione ostile che “distrugge valore”. Anche stavolta un azzardo speculativo?
Sì, dagli esiti imprevedibili. Per l’assalto a Mediobanca ci vogliono molte munizioni finanziarie e l’attuale offerta “senza contanti” da parte del Montepaschi rischia di non esser sufficiente.
Ma quali sono gli scopi dell’operazione? Molti parlano in queste ore di un interesse nazionale da difendere.
Il casus belli è l’ipotesi di accordo tra Generali e i francesi di Natixis, che punta alla creazione di una piattaforma di gestione del risparmio di “stazza globale”. In Parlamento, sia la maggioranza che pezzi dell’opposizione hanno contestato l’operazione sostenendo che rischia di far migrare il risparmio nazionale verso i mercati esteri. Per questo hanno invocato soluzioni alternative.
In effetti, se Montepaschi prendesse Mediobanca riuscirebbe ad assumere anche il controllo di Generali.
Così verrebbe alla luce il famigerato terzo polo bancario-assicurativo italiano, un vecchio pallino di Caltagirone e Del Vecchio caldeggiato anche da quei pezzi della destra che da anni sgomitano per un posto nei salotti finanziari. In effetti, la creazione di questo terzo polo tutto italiano bloccherebbe l’alleanza internazionale tra Generali e Natixis. Per questo viene da molti presentata come una sorta di “soluzione tricolore” del risiko.
In un editoriale sul manifesto, però, lei ha sostenuto che l’interesse nazionale c’entra ben poco.
Io ho posto una domanda scientifica, prima ancora che politica: siamo sicuri che affidare il controllo delle banche e delle assicurazioni nazionali all’italianissimo Caltagirone piuttosto che al francese Philippe Setbon favorirebbe gli investimenti in Italia piuttosto che all’estero? L’evidenza empirica ci dice che non è affatto detto. Nell’attuale regime di liberalizzazione finanziaria il banchiere è legato a filo doppio coi mercati e deve quindi garantire i rendimenti prevalenti sui mercati. Se a tale scopo deve effettuare investimenti all’estero piuttosto che in Italia, lo farà senza remore. Per come stanno oggi le cose il banchiere non può mantenere un rapporto stabile col territorio: magari parla anche in dialetto romanesco, ma diventa tecnicamente apolide.
Però nell’ipotetico terzo polo italiano ci sarebbe anche lo Stato, che attraverso il Mef è tuttora proprietario di una quota di Montepaschi. Potrebbe essere la garanzia per impedire che gli investimenti prendano la via dell’estero?
No. Le crisi economiche di questi anni hanno messo fortemente in discussione la fiducia nel libero mercato, ma in ambito bancario la logica di mercato resta tuttora in piedi, in Italia e in Europa. L’implicazione è che una partecipazione minoritaria dello Stato, dell’undici per cento o poco più, non può sottrarre un gruppo bancario dall’obbligo di garantire rendimenti in linea coi mercati.
Dunque, il “sovranismo bancario” sostenuto dalla destra di governo è una bufala?
Possono chiamarlo “sovranismo”, “populismo” o come vogliono, ma la realtà è che le loro strategie non hanno nulla a che fare con l’interesse generale. Questi nomi altisonanti servono solo a nascondere l’interesse capitalistico di pochi affaristi.
Lei ha pure sostenuto che le opposizioni non hanno una chiara proposta alternativa.
Se ce l’hanno non la capisco. Da un lato, le opposizioni in Parlamento hanno contestato l’ipotesi di alleanza Generali-Natixis sollevando anche loro il problema della fuga degli investimenti all’estero. Dall’altro lato, contro la mossa di Caltagirone e sodali, stanno insistendo con l’idea che l’ultima parola spetta al libero mercato e che il governo non deve intromettersi nel risiko bancario. Mi sembrano un po’ in confusione, tra le nuove fanfare del sovranismo bancario e le vecchie sirene del liberismo finanziario. Beninteso, non è un problema solo italiano. In Europa, sul tema cruciale del governo della finanza le sinistre non riescono ancora a liberarsi dalla rovinosa eredità del liberismo.
Qual è, allora, la proposta alternativa che le opposizioni dovrebbero avanzare?
Nell’immediato, se davvero lo scopo è orientare gli investimenti in Italia anche se rendono meno, o se comunque si vuol servire una qualsiasi altra forma di “interesse generale”, ci vorrebbe un diverso assetto di controllo del capitale. Bisognerebbe aumentare la quota statale nel gruppo complessivo, costringere i soci privati principali a un limpido patto di sindacato e mettere in netta minoranza la pletora di azionisti del “tutto e subito”, da Blackrock al macrocosmo di rentiers anonimi. Solo così diventerebbe possibile abbassare il tasso generale di profitto avendo però risorse sufficienti per sfamare gli azionisti che pensano solo ai guadagni immediati. Finché vige la liberalizzazione finanziaria, questo è l’unico modo per creare un po’ di margine per obiettivi “strategici” e non di mercato.
La proposta immediata sarebbe quindi una nazionalizzazione bancaria?
No, l’espressione “nazionalizzazione” è desueta e crea solo equivoci. Il problema non è di costruire un terzo polo italiano mettendolo in mano a capitalisti romani e milanesi. Il problema è di costruire un terzo polo pubblico che sappia almeno in parte servire interessi generali e non di mercato. Se lo Stato avesse una effettiva partecipazione di controllo nel terzo polo, potrebbe andare a sedersi in cabina di comando con chiunque, anche con partner esteri. Inizierebbe così anche da noi quello che io chiamo “un governo pubblico della centralizzazione internazionale dei capitali”. I francesi lo hanno capito, lo fanno da un pezzo.
E più in prospettiva?
C’è un problema di cultura politica, di visione “ideologica” nel senso gramsciano del termine. Se non vogliono continuare a sbandare tra la nostalgia del liberismo finanziario dei tecnocrati e le finzioni sceniche del sovranismo italiota delle destre, le opposizioni dovrebbero iniziare a elaborare una visione generale alternativa del governo della finanza.
Come chiamerebbe questa visione alternativa?
Il Fondo Monetario Internazionale la definisce “repressione finanziaria”, anche se qualcuno si spinge a considerarlo un prodromo di “socialismo bancario”. Al di là del nome, il punto è che le partecipazioni bancarie pubbliche aumentano in un contesto di controlli sui movimenti di capitale e di fine della centralità del mercato finanziario. Il risultato è che la logica finanziaria del profitto di “breve periodo” viene subordinata a un’ottica di “surplus” di “lungo periodo”. Teniamo conto che questa non è teoria, è storia. Come è riconosciuto persino da falchi del liberismo come l’ex capo economista del Fmi Kenneth Rogoff, nel corso del Novecento i regimi di “repressione finanziaria” hanno vantato esperienze storiche di successo. Tra la crisi finanziaria e la crisi pandemica l’argomento era tornato d’attualità, poi è calato di nuovo il silenzio. Le cosiddette forze progressiste, in Italia e in Europa, farebbero bene a rilanciare il tema.
Può essere la via per contrastare l’avanzata delle nuove tecno-destre occidentali?
Intorno a un manipolo di miliardari si sta coagulando quella che definirei una “internazionale del razzismo capitalista”: non solo verso i neri, i gialli o i rossi, ma più in generale verso chi vive nella povertà, nella malattia, nella diversità rispetto ai costumi dominanti, in ultima istanza verso chi vive del proprio lavoro. Per contrastare questo vento impetuoso e funestissimo bisogna riaprire il laboratorio delle idee forti e antagoniste. A partire da una politica alternativa della finanza, per giungere all’elaborazione di un rapporto inedito e costruttivo tra piano pubblico e libertà individuale.