Parla il senatore dem

Intervista ad Antonio Misiani: “Dai dazi di Trump l’Italia ha solo da perdere, Meloni non può continuare a fingersi morta”

«Con Trump non esistono pontieri, al massimo teste di ponte: per il bene del paese la premier deve schierarsi con l’Ue. La linea del Pd sul sostegno a Kiev non è cambiata: pace giusta e duratura».

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

6 Marzo 2025 alle 10:00

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Photo credits: Canio Romaniello/Imagoeconomica
Photo credits: Canio Romaniello/Imagoeconomica

Antonio Misiani, senatore, responsabile Economia e Finanze, Imprese e Infrastrutture del Partito Democratico nella segreteria nazionale di Elly Schlein: Trump che insulta in mondovisione Zelensky. Il suo vice, J.D.Vance, che alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, irride l’Europa dandole lezione di democrazia. Elon Musk che, al pari di Vance, fa l’endorsement per i neonazisti dell’AfD prima delle elezioni federali tedesche. Ma in Italia si parla di altro. Siamo su un altro pianeta?
Chi sembra su un altro pianeta francamente è la Meloni, che di fronte a questi eventi drammatici sta balbettando e minimizza per nascondere l’imbarazzo. Sull’opinione pubblica, invece, l’agguato contro Zelensky alla Casa Bianca ha avuto l’effetto di un elettroshock. Del resto, il cambiamento in atto è rapidissimo e di portata storica e chiunque se ne sta rendendo conto. In poco più di un mese, quello che rimaneva del multilateralismo è stato spazzato via. La globalizzazione è in via di rottamazione. E gli USA si stanno disimpegnando dall’Europa perché la loro priorità assoluta è il confronto con la Cina. La verità è che per la nuova leadership americana noi, quelli del Vecchio continente, siamo un impiccio di cui liberarsi il prima possibile. Quanto a quei rompiscatole di ucraini, devono rassegnarsi come gli afghani nel 2020, quando gli accordi di Doha negoziati da Trump aprirono la strada al trionfo dei Talebani. Meglio tardi che mai, lo stiamo comprendendo. Ora però dobbiamo attrezzarci di conseguenza.

La stampa mainstream aveva magnificato il fatto che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni fosse l’unico leader europeo presente all’Inauguration day di Trump, evocando un suo ruolo di “facilitatrice” nelle relazioni tra la nuova amministrazione americana e l’Europa…
Se qualcuno a Palazzo Chigi coltivava l’illusione che andando alla corte di Trump avremmo potuto spuntare qualche trattamento di favore, è stato subito riportato alla realtà dagli eventi. Per la nuova amministrazione valgono i rapporti di forza. Punto. E l’Italia ha un PIL inferiore a quello del Texas. Da sola, non va da nessuna parte. Certo, per la Meloni il richiamo della foresta trumpiana è molto forte. La sua ideologia e molte parole d’ordine sono simili a quelle della destra americana. Da noi vengono edulcorate, perché l’opinione pubblica non le accetterebbe. Con Trump, però, i pontieri non esistono. Possono fare tutt’al più da teste di ponte. L’unico modo per difendere gli interessi nazionali italiani su tutte le partite più importanti – dai dazi fino alla sicurezza e alla difesa – è farli valere attraverso l’Europa. La Meloni non potrà tenere a lungo i piedi in due scarpe. Dovrà decidere da che parte schierarsi. Per il bene dell’Italia, è essenziale che scelga di stare con l’Unione europea.

Nella recente direzione nazionale del PD si è molto discusso dell’Ucraina. C’è chi ha scritto di profonde divisioni e di una faticosa mediazione finale. Solo forzature giornalistiche?
Direi di sì. Basta riascoltare le parole pronunciate dalla segretaria. La nostra linea di sostegno al governo e al popolo ucraino non è cambiata. Così come la spinta verso una ripresa dell’iniziativa politica europea, a maggior ragione di fronte alle scelte dirompenti della nuova amministrazione americana. Noi siamo per una pace giusta e duratura, non per la guerra a oltranza. Su questo terreno si ritrova tutto il PD. Poi, naturalmente, ognuno di noi ha le proprie sensibilità. Ma questo è normale, in un grande partito pluralista.

Altro tema caldo è il rapporto con la Cgil di Maurizio Landini. Schlein ha dato indicazione di voto, voto Sì, ai referendum promossi dalla Cgil, lasciando però libertà di pronunciamento. Da quando tematiche sociali, come quelle oggetto dei referendum, rientrano nella sfera morale della libertà di coscienza?
I referendum non sono lo strumento migliore per cambiare il diritto del lavoro e non ha tutti i torti chi ritiene discutibile riaprire il dibattito sul Jobs Act a più di dieci anni di distanza, in una fase economica e sociale completamente diversa. Ma di fronte all’iniziativa della più importante confederazione sindacale il PD non poteva certo rimanere agnostico. La cifra e il valore aggiunto della segreteria Schlein è la nettezza e riconoscibilità delle nostre posizioni. Abbiamo scelto anche in questo caso una linea chiara, esprimendoci per il sì su tutti i quesiti. Ho condiviso questa decisione, è coerente con le posizioni a favore della revisione del Jobs Act assunte dal PD sin dai tempi della segreteria Zingaretti. Detto questo, il partito non è e non deve essere una caserma. Il diritto al dissenso va salvaguardato.

Contenuti e alleanze. Un eterno evergreen politico. Insistere sull’unità, come fa la segretaria PD, o marciare divisi per provare a vincere, come indicano Franceschini e, sia pur con sfumature diverse, Bettini?
Io credo che la strada maestra sia lavorare per l’unità nella diversità. Pensare di ricostruire una coalizione strutturata come era l’Ulivo è velleitario. Ma immaginare che marciare divisi per colpire uniti ci permetta di vincere e governare è altrettanto illusorio. Di fronte, abbiamo un’alleanza di destra litigiosa ma tenuta insieme da una leadership forte e capace di ritrovare l’unità nei passaggi cruciali. Guai a dimenticarlo. Quello che dobbiamo fare è utilizzare al meglio il tempo che ci separa dalle prossime elezioni politiche per coltivare sui grandi nodi politici un terreno comune con le altre forze alternative alla destra. Sui territori questo percorso sta andando avanti e laddove ci presentiamo uniti – dal Movimento 5 Stelle fino a tutte le forze centriste – vinciamo noi. A livello nazionale c’è invece ancora parecchia strada da percorrere. Sui principali temi economici e sociali – dalla sanità al salario minimo, fino alle politiche industriali – c’è una buona consonanza. Il punto più contrastato ad oggi rimane la politica estera. Non è un fatto banale e serve a poco ricordare che anche la destra su questi temi continua a dividersi. Il posizionamento internazionale è cruciale per la credibilità di un progetto di governo. Dobbiamo lavorare tutti insieme per trovare un punto di incontro.

Lei nella segreteria nazionale Dem è responsabile di un settore chiave: Economia e Finanze. Per tornare al quadro internazionale e al “ciclone Trump” che si è abbattuto sull’Europa: l’amministrazione USA ha avviato, come aveva minacciato il tycoon in campagna elettorale, la guerra dei dazi con l’Europa. In più, ci chiede di comprare armi made in USA. Siamo già dentro un’economia di guerra e l’Italia sta a guardare?
Non siamo ancora dentro un’economia di guerra, ma certamente siamo entrati in un mondo nuovo, in cui il rafforzamento della deterrenza è una questione che nessuno in Europa può permettersi di sottovalutare. Avviare una disordinata corsa agli armamenti su scala nazionale è una risposta largamente inefficace. Quello di cui abbiamo bisogno è invece un piano per la difesa comune europea, un grande programma di investimenti comuni per l’autonomia strategica dell’Unione, superando la frammentazione industriale e tecnologica e la dispersione di risorse che indeboliscono la capacità dell’Europa di affrontare le minacce esterne. Anche la guerra commerciale avviata dall’amministrazione Trump richiede più che mai una risposta univoca dell’Unione. Un Paese a forte vocazione all’export come l’Italia ha tutto da perdere dai dazi e dal protezionismo. Rischiamo di veder andare in fumo miliardi di euro e decine di migliaia di posti di lavoro in settori chiave come la chimica, la farmaceutica, la meccanica, l’automotive e l’agroalimentare. Finora la Meloni e i suoi ministri sono rimasti in silenzio, per paura di disturbare l’amico Trump. Non potranno fingersi morti all’infinito. Continueremo ad incalzarli per farli uscire dal letargo.

Il governo vanta importanti risultati in campo economico, sull’occupazione anzitutto. È vera gloria?
No, il quadro che emerge dai dati ISTAT è tutto tranne che glorioso. Dopo oltre due anni di governo della destra, l’economia è ferma, le tasse sono a livelli record e il debito pubblico è nuovamente in aumento. Di fatto, solo l’impatto positivo del PNRR ha salvato l’Italia dalla recessione. Certo, il deficit pubblico si è ridimensionato al di là delle previsioni e l’Italia è tornata in avanzo primario. Ma tutto questo è avvenuto al prezzo di una dura austerità per servizi essenziali come la sanità, la scuola e il trasporto pubblico e una pressione fiscale salita a livelli record. Le chiacchiere sulla riforma tributaria stanno a zero. Con il governo Meloni i contribuenti italiani stanno pagando di più, con un carico particolarmente pesante sui lavoratori dipendenti e i pensionati, i cui redditi netti sono stati falcidiati dal fiscal drag. Dopo tre anni di calo, torna ad aumentare anche il debito pubblico. Va meglio sul versante dell’occupazione, ma la creazione di nuovo lavoro si concentra in settori a bassa produttività e bassi salari. Di fronte a questi numeri e alle nubi nere che si vanno addensando nel cielo dell’economia globale, il piano strutturale e la legge di bilancio sono strumenti ormai inadeguati, di fatto inservibili. La politica economica e sociale deve cambiare rotta. In Italia e in Europa.

6 Marzo 2025

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