La manifestazione a Roma

Scendiamo in piazza per il disarmo: difendiamo l’Europa della pace e di Ventotene da von der Leyen

Il riarmo caldeggiato dall’Ue trancia quel germe di civiltà sorto dopo gli orrori del 900. Sabato bisogna esserci: non lasciamo campo ai guerrafondai

Politica - di Andrea Ranieri, Francesco Sinopoli

12 Marzo 2025 alle 21:58

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Foto Roberto Monaldo / LaPresse
Foto Roberto Monaldo / LaPresse

L’isola di Ventotene riveste per l’Europa attuale un valore fortissimo. È lì che trova le sue radici l’Unione europea: nel luogo di confino degli oppositori del regime fascista, prende forma negli anni più duri della seconda guerra mondiale un progetto concreto e attuale di Europa unita, con l’obiettivo innanzitutto della pace.

Non è la prima volta che l’idea di una Federazione europea viene avanzata: è infatti lunga la lista di pensatori politici e di filosofi – Kant su tutti in particolare con l’obiettivo della pace perpetua – che su un simile obiettivo avevano in precedenza fornito il loro contributo. Ma quell’idea aveva sempre mantenuto nei loro scritti le sembianze di un’utopia, di qualcosa di lontano e quasi astratto: la novità del manifesto di Ventotene sta proprio nella capacità di affermare e delineare l’attualità della Federazione europea, nel fatto che la sua costruzione viene proposta come compito immediato e per l’oggi.

Nella cultura europeista della sinistra italiana la Cgil di Giuseppe Di Vittorio e di Bruno Trentin ha avuto un ruolo determinante a partire dalla posizione assunta fin da subito sulla Ceca, in contrasto con la maggioranza del Pci ma anche del Psi. Una posizione che si rafforzò negli anni e che vedrà non a caso Trentin impegnato nel gruppo Spinelli da parlamentare europeo. Non sappiamo cosa avrebbero pensato oggi i due grandi leader, alle cui figure siamo molto legati. Pensiamo però che per andare avanti nella direzione di Spinelli serva una cognizione esatta di ciò che è accaduto all’Unione Europea, anche solo per capire come riprendere nelle nostre mani il progetto degli architetti, ben poco corrispondente a ciò che abbiamo oggi.

L’ordoliberalismo che dall’Atto Unico in poi connota sempre più la politica economica e monetaria, il deficit di democrazia, lo squilibrio evidente tra principio della concorrenza, assunto come un dogma, e diritti sociali, sintetizzano da soli i limiti della struttura attuale. Che esista un rapporto diretto tra queste deficienze, la nostra prolungata crisi democratica e l’esplodere dei nazionalismi e dei fascismi non è un mistero per nessuno, anzi è confermato da studi voluti dalla stessa commissione. Fenomeno ben precedente l’avvento di Trump. E come pensano di risolvere le elites europee questa evidente crisi, dopo anni di discussioni e dopo il disastro del 2008-2011 determinato dall’austerità? Con un piano il cui solo titolo suona già come aberrante e nulla ha a che vedere con l’idea della difesa comune, come evidenziato da molti contributi anche su questo giornale, già presente nei primi processi di integrazione europea, la comunità europea di difesa, affossata dal voto francese del 1954.

Mentre l’umanità è chiamata ad affrontare una sfida per la sopravvivenza determinata dalla compromissione della biosfera che chiamerebbe in causa enormi investimenti in scienza e tecnologia applicata alle fonti rinnovabili, il ripensamento della nostra manifattura guidandola verso una giusta transizione, mobilitare formazione e competenze l’Europa passa dal green new deal al keynesismo militare come se niente fosse, mettendo in campo risorse che finiranno comunque per finanziare l’apparato militare americano. Sempre verde ma in mimetica. È sconvolgente quello che sta accadendo. Per rendere possibile una opzione che fino a qualche tempo fa sarebbe suonata improponibile si dichiara lo stato d’emergenza a causa del nemico alle porte funzionale a silenziare qualunque forma di dissenso. E se il nemico incombe ecco riproporsi il vecchio ritornello della solidarietà nazionale, questa volta sotto l’egida di un premierato senza vincoli, mettendo all’angolo non solo i pacifisti, ma anche la divisione dei poteri su cui si basa l’architettura costituzionale delle democrazie. Già si ipotizza senza pudore la necessità di reintrodurre la leva obbligatoria, presentandola come conquista del progressismo perché sarebbe finalmente per donne e uomini.

La crisi climatica e la guerra mondiale in cui siamo coinvolti come cobelligeranti, e già vittime economiche, dovrebbero essere al centro di una iniziativa permanente di informazione e discussione, chiara nella rappresentazione dei rischi reali e delle responsabilità. E, dunque, in grado davvero di aiutare la costruzione di coscienza e consapevolezza indispensabili per una mobilitazione collettiva capace di imprimere un cambiamento profondo rispetto a quelle scelte politiche ed economiche che stanno oggi assecondando processi devastanti per la vita sulla Terra a partire dalle persone più fragili, più deboli, più povere, più oppresse. Invece di comprendere, contestualizzare, aiutare a conoscere per essere cittadini consapevoli e democratici assistiamo alla promozione di quella che Morin chiama l’isteria della guerra in quel magistrale libretto che è Di guerra in guerra. L’Europa coerente con il Manifesto di Ventotene doveva darsi come missione politica la pace. È esattamente l’opposto di quello che sta facendo. Abbiamo scritto qualche giorno fa che le scelte di Trump ci davano la possibilità di archiviare l’atlantismo, e che il più grande errore commesso dall’Europa era aver lasciato a Trump l’iniziativa diplomatica sull’Ucraina. Lo ribadiamo. Opporsi a Trump e alla sua apertura unilaterale alla Russia, alla sua transactional diplomacy, non può voler dire rimpiangere i bei tempi della guerra e dello scontro frontale fra l’Occidente e i suoi nemici. Trump ha agito sul vuoto di proposta dell’Europa, schiacciata dal peso di una strategia basata solo sul sostegno militare a Kiev senza mai adottare una iniziativa di pace.

Ma, aggiungiamo, alla luce di quello che è accaduto negli ultimi giorni, che abbandonare l’atlantismo significa abbandonare anche quello dei democratici americani. Sarebbe assurdo assumere oggi la loro linea di politica estera, nei fatti egemonicamente bipartisan perché, come tutti sappiamo, corrisponde a quella degli Usa dal 1991 in poi. Una strategia fondata sull’idea di un mondo unipolare realizzato anche attraverso l’allargamento della Nato sempre più ad est, facendola coincidere con lo stesso allargamento dell’Unione Europea. E questa coincidenza è una causa non secondaria del conflitto fra la Russia e l’Europa. Su questo il Papa è stato fin dall’inizio di una chiarezza estrema, ci manca ora la sua voce. Non esistono guerre giuste ma rimuoverne le cause è il modo migliore per non farle terminare mai. Se il nemico è alle porte però c’è poco da ragionare, l’obiettivo è proprio questo. Impedire ogni forma di riflessione critica rispetto al nuovo ordine naturale che ci viene proposto.

La propaganda martellante di questi giorni, l’accusa tipica di diserzione ai pacifisti rischia di essere un antipasto di quello che accadrà nei prossimi mesi. “È naturale che la gente non voglia la guerra, non la vogliono gli inglesi né gli americani e nemmeno i tedeschi. Si capisce. È compito dei leader del paese orientarli, indirizzarli verso la guerra. È facilissimo: basta dirgli che stanno per essere attaccati, denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo o perché mettono in pericolo il paese. Funziona così in qualsiasi paese che sia una democrazia, una monarchia, una dittatura”. Proviamo orrore a citare Herman Goring ma purtroppo la descrizione che faceva della propaganda bellica era corretta, essendo un esperto. È chiaro, no?

Nell’appello Europa di Pace per tutti i Popoli promosso da Europe for Peace, Rete italiana pace e disarmo Fondazione Di Vittorio, Fondazione Basso, Sbilanciamoci e molti altri si pongono alcune domande retoriche implicitamente dialogando con quelle di Michele Serra su Repubblica. Di quale Europa stiamo parlando? Europa di pace o Europa di guerra? Europa che investe in armi tagliando il welfare o che investe in cooperazione tagliando le spese militari? Che afferma la sua unità come elemento essenziale di un mondo multipolare, che regoli la sua economia e le sue politiche di sicurezza sulla collaborazione e la cooperazione fra diversi, oppure sia parte di guerre commerciali e finanziarie che sono da sempre l’anticamera delle guerre guerreggiate? Siamo con gli Ucraini d’accordo ma come? Vi diamo le armi e combattete o facciamo diplomazia ? Noi restiamo fedeli al manifesto di Ventotene e al pensiero di Spinelli: liberare l’Europa dalle guerre non fare dell’Europa un attore delle guerre.

L’appello si chiude con l’invito a portare in tutte le piazze la bandiera della pace che rappresenta questa idea di Europa. Se riscontriamo un limite del nostro impegno pacifista di questi anni è non aver compreso che senza una campagna permanente per costruire una nuova cultura della pace da svolgere nei luoghi di lavoro e di studio, nelle piazze, in tutte le nostre attività, la cultura della guerra rischiava di prevalere come è accaduto in Palestina senza che davvero riuscissimo a levare una voce anche minimamente adeguata contro il massacro. Cosa succederebbe oggi in Italia se venisse introdotta la leva obbligatoria? Avremmo la forza di Don Milani quando scriveva nella lettera ai cappellani militari su Rinascita che l’obbedienza non è una virtù? Avremmo la forza di invitare alla diserzione? Avremmo la forza di una campagna come quella contro i missili a Comiso? Una campagna vera sulla denuclearizzazione e sulla riduzione delle spese militari? I comuni, a partire da quelli che stanno promuovendo la manifestazione, hanno questa volontà, la stessa che animò tanti comuni italiani negli anni in cui il movimento pacifista è riuscito a far sentire davvero la sua voce? Perché è ciò che serve ora.

La genericità dell’invito a manifestare per l’Europa di Michele Serra, la mancanza della parola pace in quel testo, ha creato in noi come in tante e tanti disagio ma allo stesso tempo abbiamo provato a riflettere cosa realmente avrebbe mosso. Nella maggior parte dei bar non si parla né della guerra né della pace, si parla di quanto costa la vita ogni giorno. Una cosa è certa, però, la guerra questa condizione di povertà la aggrava eccome. Ed esiste un rapporto diretto tra l’aumento del costo della vita e la guerra che sarà ancora più evidente con il piano di riarmo pagato proprio da noi. Al di fuori della nostra bolla più stretta il mondo funziona così, distante dall’agorà anche quando si discute di cose di enorme importanza perché in tante e tanti dalla democrazia e dallo stato in questi anni si sono allontanati perché dalla democrazia e dallo stato non hanno avuto le risposte che si aspettavano per andare avanti ogni giorno.

Siamo stati molto coinvolti nel dibattito di questi giorni anche con posizioni diverse tra gli stessi che hanno provato ad animare un movimento per la pace in questi anni. Ma enfatizzare le differenze fra di noi sembra sempre più una reazione emotiva che guarda il dito e non la luna. Non per lanciare la palla in tribuna ma per pensare in termini di azione politica riteniamo utile riportare l’attenzione sugli obiettivi enormi che dobbiamo porci nelle prossime settimane. Come incidere su una vastissima opinione pubblica a partire dai tanti che nella piazza ci andrebbero comunque con noi o senza di noi e soprattutto dai molti di più che al bar certo non parlano di nessuna manifestazione? Ecco perché più che dividersi in una caricatura del 1914 sulla piazza di sabato prossimo come se fossero i debiti di guerra o le “radiose giornate di maggio” dovremmo, come pacifisti e pacifiste, immaginare i prossimi passi a partire dall’assemblea che la Cgil insieme a tante reti ha già lanciato attraverso la lettera del suo segretario generale dialogando con l’appello di Michele Serra. Una assemblea che dovrà discutere di pace ma anche di Europa, di ambiente e lavoro, di democrazia.

Dopo una lunga e autentica riflessione con queste convinzioni noi nella piazza di sabato ci saremo perché non abbiamo nessuna intenzione di lasciare l’ideale (e non il dogma) dell’Europa unita al bellicismo tattico e strategico dell’establishment che guida oggi l’Unione Europea. La posizione espressa dal segretario generale della Cgil, da Don Ciotti, da Luigi Ferrajoli, da Zagrebelsky non sarà isolata. Non si tratta di adesioni ma di scelte di partecipazione motivata che hanno sfidato e sfideranno il tentativo evidente di piegare il popolo impaurito da tutto ciò che accade (ma anche dalla narrazione occidentale mainstream) a una adesione alla deriva mostruosa della Commissione europea. Le bandiere della pace saranno tante, speriamo che da Perugia arrivi anche quella di Aldo Capitini. Dopo tante discussioni almeno possiamo riconoscere all’appello di Michele Serra di aver costretto tanti a schierarsi di nuovo, sia che saranno in piazza come noi sia che resteranno a casa o si ritroveranno in una piazza diversa.

Soprattutto perché non basterà questa volta una manifestazione: ricostruire una cultura politica della pace richiederà molto di più. Scriveva Alex Langer: “Liberarsi dalla guerra, dal militarismo, dalla distruzione ecologica, dall’incombere dell’apocalisse non riguarda solo i nostri figli e nipoti, riguarda noi ora. Certo fa una bella differenza essere circondati da un clima di esaltazione eroica della guerra piuttosto che da quel ripudio della guerra che la Costituzione della Repubblica italiana esprime”. Purtroppo è così, ma l’ideale della Pace oltre che essere una postura etica continua ad essere più che mai un obiettivo politico ancora più attuale alla luce delle sfide che l’umanità si trova oggi ad affrontare.

*Fondazione Di Vittorio

di: Andrea Ranieri, Francesco Sinopoli - 12 Marzo 2025

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