Il senatore dem
Intervista ad Alessandro Alfieri: “Difesa comune? Facciamola con chi ci sta, un gruppo di pionieri coraggiosi”
Le divisioni nel Pd? «Sui contenuti del piano Von der Leyen non vedo differenze insormontabili. Se stiamo al merito, si può costruire una risoluzione che sfidi il centrodestra». La piazza di sabato? «Positiva, sta alla politica trasformare le istanze delle piazze in progetti: non può fermarsi agli slogan»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli

Alessandro Alfieri, senatore, capogruppo del Partito Democratico alla Commissione esteri di Palazzo Madama e responsabile Riforme e Pnrr nella segreteria nazionale del PD: la “bufera di Strasburgo”, con la spaccatura degli europarlamentari Dem nel voto sul Libro Bianco della Difesa, ha fatto scrivere “Schlein sotto attacco” con tanto di invocazione di un Congresso straordinario. Lei come la pensa?
La segretaria ha parlato di verifiche, chiarimenti, dicendo valuteremo forme e modi. Aspettiamo di capire come intenda procedere. Al momento, io non ravviso l’esigenza di un Congresso straordinario, e questo perché, al netto di alcune posizioni minoritarie, ho ascoltato posizioni non lontane sul “Piano” presentato dalla Presidente della Commissione. Che ci siano delle criticità sui primi indirizzi, è valutazione condivisa. La preoccupazione essenziale, quella maggiore, è che sia l’aumento delle risorse a livello nazionale sfruttando gli spazi fiscali in deroga sia i prestiti europei senza condizionalità ben definite rischia di aumentare la dipendenza strategica da fornitori esterni, in particolare dagli Stati Uniti, e non crea le condizioni favorevoli per costruire la difesa comune.
Vale a dire?
Beh, verrebbe meno uno degli obiettivi principali, cioè come noi rafforziamo l’autonomia del nostro Continente e garantiamo la protezione e la sicurezza ai Paesi europei nel momento in cui s’indebolisce la portata dell’ombrello difensivo americano. Sul fatto che ci debbano essere condizionalità che aiutino a garantire quanto sopra e che aumentino l’interoperatività dei sistemi, visto che oggi abbiamo un numero enorme di piattaforme di sistemi d’arma rispetto ad altri Paesi, in primis gli Stati Uniti; o che spingano a collaborazioni industriali tra Paesi europei e ad acquisti e programmi in ambito comunitario, penso proprio che ci sia la condivisione della stragrande maggioranza del partito.
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Dov’è allora la differenza?
A mio avviso, la differenza, almeno a Strasburgo, sta nel fatto di dover fare questa battaglia insieme a tutti i partiti socialisti e democratici e di starci dentro con autorevolezza e capacità di incidere fin dal primo momento. Come ha cercato di fare il nostro capodelegazione Zingaretti. Stare pienamente con il resto dei partiti socialisti e democratici anche mettendo in evidenza le criticità sopra delineate ci avrebbe dato più forza e non ci avrebbe isolato nella decisione finale.
Alcuni hanno pensato invece di marcare queste criticità più nella dimensione nazionale e nella ricerca del consenso interno. Sui contenuti in sé del “Piano”, sulle osservazioni critiche, francamente io non vedo delle differenze insormontabili. Va poi fatta una seria discussione, che ancora manca, sulla lettura degli scenari di fondo a livello internazionale, con l’azione della Cina di Xi Jinping e la nuova Via della Seta da una parte, e dall’altra con Trump che sta destrutturando l’ordine internazionale basato sul multilaterale incidendo sui rapporti e gli equilibri all’interno dell’Alleanza Atlantica. Sfide enormi. Su come rispondere esistono posizioni e sensibilità diverse a livello europeo, che ancora non emergono appieno nelle loro possibili conseguenze.
Ad esempio?
Io sono tra quelli convinti che ormai questa Europa a Ventisette abbia raggiunto il massimo dell’integrazione. Orban e Fico guardano verso la Russia e si ispirano a modelli di democrazia illiberale; i Paesi baltici e la Finlandia con i carri armati russi al confine o la Polonia con i missili Iskander a pochi chilometri da Danzica, hanno decisamente una sensibilità più elevata sui temi della sicurezza e della difesa. In questo contesto, penso che Francia, Germania, Italia, Spagna e in prospettiva probabilmente anche la Gran Bretagna, che con il primo ministro laburista Starmer sta facendo un importante lavoro di riavvicinamento, possano essere il nucleo, aperto ad altri Paesi, che si dota di una politica estera e di difesa comune. Se vogliamo costruire davvero una Europa politica, dotarci veramente di una difesa comune europea, devi agire fuori Trattato, come fu fatto all’inizio per l’euro e per Schengen ad esempio. Con chi ci sta, con un gruppo di pionieri coraggiosi. Non vedo alternative. Una tesi che sostengo da tempo: prima eravamo in pochi, adesso vedo con piacere che ci sono più persone a sostenerlo. Resta il fatto che su questa visione di fondo c’è ancora molto da discutere anche dentro il Partito democratico. Ma non al punto da esigere un Congresso. Se questa necessità di discussione crescerà, come mi auguro, si troveranno forme e modi per svilupparla. Un confronto anche con modalità innovative con tutta la nostra comunità. Però adesso io sto al punto più vicino, quello delle prossime risoluzioni. Non c’è proprio bisogno di rimproverarsi a vicenda, di riaprire ferite spingendo per una resa dei conti. Se stiamo al merito, sono convinto che la possibilità di costruire una risoluzione che sfidi il centrodestra sulle questioni più importanti sia possibile. Per confermare il nostro sostegno all’Ucraina e richiedere con forza il coinvolgimento dell’Europa e dell’Ucraina nei negoziati per la pace. Per chiedere al governo di non aprire trattative separate con gli Stati Uniti sui dazi ma di agire compattamente come Europa. Per sostenere l’aumento di risorse a disposizione del bilancio dell’unione nella nuova programmazione pluriennale. E poi certamente anche per chiedere al governo di dare risposte ad alcune criticità del piano Rearm Eu presentato dalla commissione: per mettere condizionalità precise all’aumento delle risorse che spingano verso la difesa e per chiedere che si escluda totalmente la possibilità di utilizzare i fondi di coesione per spese militari.
Una Europa “riarmista” non rischia di regalare a Trump la pace?
Il problema esiste. Penso che ci sia anche una questione irrisolta di linguaggio e di capacità di indicare una visione. Mi spiego: se noi parliamo di Europa politica, che deve essere l’obiettivo da costruire con chi ci sta, se noi parliamo di difesa delle democrazie liberali, se noi facciamo un ragionamento serio dicendo che l’Europa è un progetto di pace e di libertà, e che la pace e la libertà le tuteli garantendo le condizioni di sicurezza. Allora ci facciamo capire dalle persone perché indichiamo una prospettiva, una visione.
Nel senso?
Io l’avrei chiamato Protect EU. In positivo. E non Rearm EU. Il tema della difesa e della protezione è centrale. Nel senso che se l’Europa è un progetto basato su due valori di fondo come la pace e la libertà, questi due valori li preservi se metti in campo garanzie e condizioni di sicurezza. In fondo, l’Alleanza Atlantica fu questo, un’alleanza politico-militare ma anche una comunità che condivideva principi e valori, cioè l’idea della difesa delle democrazie liberali. Le due dimensioni vanno tenute insieme. È chiaro che se sposti tutto su una retorica legata alla parola armi, regali le parole pace e libertà ad altri e soprattutto non convinci le opinioni pubbliche. Sono convinto che se spieghi che la pace e la nostra libertà in Europa richiede maggiori garanzie di sicurezza a fronte di un possibile disimpegno USA, le persone ti capiscono. I sondaggi dimostrano che quando dai una prospettiva, l’elettorato Pd ti segue e la maggioranza è a favore del progetto di garantire maggiore sicurezza all’Europa e di spingere sulla difesa europea comune. È chiaro che se invece banalizzi un tema talmente delicato con slogan che mettono in contrapposizione guerra o pace, spese militari o spese sociali, ti arrendi al vento del populismo. Sicuramente è un linguaggio ed un’attitudine non da partito serio, affidabile, che ambisce a costruire un’alternativa di governo credibile, come è il Pd. Lasciamo ad altri la banalizzazione di problemi enormemente complessi, che è il tratto tipico dei populisti.
Da questo punto di vista, che piazza è stata quella di sabato scorso a Roma?
L’ho trovata una piazza certamente positiva, dove c’erano sensibilità diverse ma accomunate da una idea, che oggi non ce la facciamo più da soli, come singoli Pesi, ad affrontare le grandi sfide, e che l’Europa, sogno di pace e di libertà, ha rappresentato una via diversa, opposta, rispetto a quella dei nazionalismi che hanno sempre portato a guerre e conflitti. Sta poi alla politica trasformare quelle istanze che animano le piazze, in proposte, progetti. La politica non può limitarsi agli slogan, deve essere capace di fare discorsi seri e dire come si arriva alla pace, come si arriva a costruire la difesa europea. È un dovere in più a cui la politica, se vuol essere credibile, non può, non deve sottrarsi. Noi abbiamo il dovere di spiegare con una proposta solida come si arriva a costruirla la difesa europea. In questo momento la difesa europea non può spendere soldi. Perché per il Trattato non possiamo tirare fuori risorse per spese di carattere militare. Se vuoi fare un passaggio in avanti devi in questa fase tenere insieme sia risorse europee che risorse nazionali che devono crescere un po’ entrambe ma con condizionalità molto forti che devono andare a costruire l’integrazione delle industrie della difesa europea, l’interoperabilità dei sistemi di difesa dei singoli Paesi europei. È un processo graduale che va avviato. Ma oggi, insisto su questo, è fondamentale l’iniziativa politica. Dobbiamo sfidare la Meloni a prendere un’iniziativa politica con la Francia, la Germania, la Spagna, e tutti quei Paesi che condividono l’idea che serva in prospettiva l’Europa politica e non ci può essere una Europa politica senza una difesa comune.
Su questa idea di Europa esiste ancora una sinistra europea?
Voglio sperarlo. Sta nell’identità del Partito democratico. Se dovesse venire meno, questo sì sarebbe materia di Congresso. Se dovesse venire meno l’idea di una forte tensione verso l’Europa politica, basata su un sistema di difesa comune, magari sacrificata a esigenze di bottega e di costruzione del consenso interno, verrebbe meno uno dei tratti identitari del Pd, che ha sempre investito sulla dimensione comunitaria, su una idea forte di Europa. Certo è che non potremmo mai inseguire i 5Stelle su questo versante, perché loro una storia di europeismo non l’hanno mai avuta. Il loro programma del 2018, con cui sono andati al governo, era un programma di equidistanza tra Occidente e Oriente, un programma fortemente critico sulla dimensione europea comunitaria. Adesso ci sono state in parte delle evoluzioni, però ultimamente ho sentito degli accenti che mi hanno preoccupato, quando si sono paragonate le bandiere europee alle bandiere di guerra. Questo è un pericoloso arretramento che non può non preoccuparci. Spero che nessuno nel Partito democratico voglia dar loro sponda.