Le comunicazioni della premier al Senato

Meloni fa ammuina e sazia la Lega: “Riarmo? No, è difesa dei confini…”

Meloni pacifica gli alleati vendendo il piano di militarizzazione Ue come uno strumento per tenere a bada i migranti e incentivare il Pil. Nuovo alt a Macron: “Niente soldati in Ucraina”

Politica - di David Romoli

19 Marzo 2025 alle 16:30

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Foto Roberto Monaldo / LaPresse
Foto Roberto Monaldo / LaPresse

L’obiettivo essenziale era compattare una maggioranza che sul riarmo europeo ha opinioni opposte e Giorgia Meloni lo ha centrato senza grande sforzo. Alla fine delle sue comunicazioni al Senato la Lega tripudiava. In parte la premier ha convinto la Lega declinando il ReArm Europe, il piano proposto da Ursula von der Leyen, a modo suo: “Abbiamo chiesto di cambiare il nome del piano, per esempio Defend Eu, perché quel nome è fuorviante. Non è una questione semantica. È che difesa vuol dire molto più del semplice riempire gli arsenali. Non è solo acquistare armi, che poi andrebbero prodotte e non comprate. La sicurezza è un settore molto più vasto, comprende il settore fondamentale della cybersicurezza e la difesa dei confini” (dagli immigrati, s’intende).

Sui soldi, il capitolo più delicato soprattutto per Giorgetti che, in assenza di Salvini era seduto al fianco della premier, la presidente ha avuto gioco facile nel far leva sulla indeterminatezza del Piano. Rivendica a voce altissima l’essersi “opposta con fermezza all’ipotesi di rendere obbligatorio l’uso di una parte dei Fondi di coesione per le armi. È stata una vittoria e l’Italia non intende distogliere un solo euro dai Fondi di coesione”. Ma sui 150 mld di “prestiti e volontari” rinvia a quando “avremo chiari i dettagli”. E i 650 mld che dovrebbero venire fuori da un 1,5% di deficit aggiuntivo non contati nel Patto di Stabilità, prima di tutto la cifra è teorica ma in secondo luogo e soprattutto: “L’Italia valuterà con attenzione l’opportunità di attivare o meno gli strumenti previsti dal Piano”. Insomma, tutto in forse, nulla di deciso, tutto molto incerto. E anche questo per la Lega va benissimo.

Ma soprattutto, senza mai dirlo apertamente, la premier prende le distanze, punto per punto, dall’intera impostazione che stanno assumendo da un lato l’Unione e dall’altro l’asse anglo-francese. Sui dazi esprime massima perplessità sulla “reazione isitintiva” che porta alla “rappresaglia a colpi di dazi”. Così però il rischio di innescare la spirale inflazione-rialzo dei tassi diventa alto: “Non sono certa che rispondere a dazi con dazi sarebbe un buon affare”. Su Trump e sui rapporti tra Ue e Casa Bianca alza la voce: “Non si può immaginare di ottenere garanzie di sicurezza dividendo Europa e Usa. Pensare a un’Europa che fa da sola è nella migliore delle ipotesi ingenuo, nella peggiore folle”. Conferma l’appoggio all’Ucraina però glissa sui 40 mld che l’Alta commissaria Kallas vorrebbe investire in nuovi aiuti per Kiev e che per l’Italia sono troppi ma sostiene a spada tratta lo sforzo di pace di Trump.

Sulla missione di peacekeeping che vagheggiano Starmer e Macron è drastica: “Il nostro compito come Italia non è seguire gli alleati ma se del caso esprimere il nostro dissenso. L’invio di truppe italiane non è mai stato all’odg. Ma voglio anche dire che l’idea di una missione europea mi pare complessa, rischiosa e inefficace. Molto meglio estendere all’Ucraina, in funzione solo difensiva, l’art. 5 della Nato, che non impone affatto la guerra in caso di aggressione ma considera l’uso della forza una delle opzioni possibili”. Nel complesso lo spostamento verso la sponda americana dell’Atlantico è allo stesso tempo discreta ma anche drastica e per il momento la partita con la Lega è chiusa.

Proprio perché stavolta l’attenzione di Giorgia era tutta rivolta alla sua maggioranza la polemica con l’opposizione, che di solito tiene banco, passa in secondo piano. La premier si limita a bersagliare quelli che “sbandierano le bandiere della pace contro le spese per la difesa ma si lamentano anche per l’eccessiva ingerenza americana: le due cose non stanno insieme”. Su quel lato della barricata la segretaria del Pd, a sorpresa, ha scelto di mediare pochissimo. La risoluzione del Pd chiede di “cambiare radicalmente” il Piano di Ursula e nel dettaglio conferma puntigliosamente la posizione di Elly: sì alla difesa comune ma non al riarmo Paese per Paese. Per la segretaria, se il voto sarà compatto, è una vittoria piena.

Ieri al Senato non c’è stata però solo la relazione della premier. Coincidenza ha voluto che qualche ora prima si svolgesse nello stesso palazzo Madama l’audizione di Mario Draghi. L’ex premier ha rimesso sul tavolo quelle che per lui sono le scelte dalle quali dipende il futuro dell’Europa: debito comune, difesa integrata con catena di comando continentale, necessità di autonomia energetica che però non può derivare dal gas e impone il disaccoppiamento del prezzo delle rinnovabili e del nucleare da quello delle fossili. L’approccio della premier, come sempre, non è molto diverso da quello dell’ex presidente della Bce, la convergenza sarebbe possibile. La linea di demarcazione, a differenza del passato, però c’è. Ha un nome e un cognome: Donald Trump.

19 Marzo 2025

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