L'ira della sinistra: "Vergogna!"
Perché la Meloni ha attaccato il Manifesto di Ventotene
Giorgia cita frasi del Manifesto di Ventotene espunte dalla prima versione e attacca i patrioti fondatori dell’Europa. Fornaro: “Davanti a loro deve inginocchiarsi”
Politica - di David Romoli

Federico Fornaro, Pd, uomo colto e mite, non lo si era mai visto così paonazzo. Marco Grimaldi, deputato combattivo Avs, ce ne metterà a recuperare la voce dopo gli urli di ieri. Il 5S Colucci chissà se eguaglierà mai la verve tribunizia mostrata ieri. Gli strilli sono finiti lì ma solo perché nel caos la seduta è stata interrotta per la seconda volta e per parecchie ore.
Pietra dello scandalo un reato che non figura nel codice ma è scolpito in quello non scritto che separa quel che può essere detto da quel che va oltre il consentito: leso Manifesto di Ventotene. Offesa alla sacra memoria di Altiero Spinelli, padre dell’Europa. Rea del delitto era appena stata Giorgia Meloni. La seduta era arrivata senza scosse, persino sonnacchiosa a fronte della gravità dei tempi, fino all’ultimo scorcio della replica di Giorgia Meloni, al termine della discussione generale sulle sue comunicazioni in merito al Consiglio europeo di oggi e domani. Si è capito subito che, a differenza del giorno prima al Senato, Giorgia voleva sfruttare la diretta tv per strapazzare l’opposizione. Sprezzante con i 5S, “Capisco che quando eravate al governo l’Italia aveva dei problemi. Ma non ho tempo per la vostra lotta nel fango”. Aveva sfidato chiamandola direttamente in causa Elly Schlein, “Dato che interverrà in dichiarazione di voto, ci faccia sapere, avendo detto che ‘Trump non sarà mai nostro alleato’, se vuole uscire dalla Nato. O dal G7. O se non dobbiamo avere più rapporti bilaterali con il presidente Usa”.
Ma la stilettata al cianuro è arrivata alla fine: “Non so avete mai letto quel Manifesto di Ventotene a cui vi richiamate”. Segue lettura di qualche passo, alcuni dei quali per la verità espunti dopo un paio d’anni dalla prima versione, quella del 1941: “La rivoluzione europea dovrà essere socialista”, “La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria”, “Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo Stato e intorno a esso la democrazia”. Conclusione facile, su piatto d’argento: “Non so se questa è la vostra Europa, certamente non è la mia”. L’aula esplode e per una volta non per modo di dire. I forzisti cercano affannosamente una buca in cui seppellirsi. Anche parte dei Fratelli indossano la faccia di circostanza per mascherare l’imbarazzo. Il colpo basso della premier è evidente. Ma rintuzzarla e magari anche inchiodarla all’entusiasmo per quel Manifesto da lei stessa mostrato qualche anno fa sarebbe stato facile senza bisogno di insorgere come se criticare un documento politico fosse qualcosa di empio e sacrilego. Per quella via a Giorgia Meloni si regala solo un ennesimo aiutino.
Quando il dibattito riprende parlano i leader dell’opposizione. Prima Conte che neppure finge di rivolgersi al Parlamento e strilla un comizio di quelli di una volta, nei Paesi, con le casse al massimo. Don Camillo e Peppone. Elly difende la sua posizione, quella che ha imposto a una minoranza messa stavolta con le spalle al muro: difesa comune sì ma non corsa al riarmo dei singoli Stati. Lo ha fatto con determinazione e coraggio. Spazia a tutto campo: rinfaccia alla premier lo spionaggio ai danni dei giornalisti, il rimpatrio del torturatore Almasri, l’Albania, il silenzio su Gaza, sul quale aveva già insistito Conte, quello sugli attacchi di Trump alla Ue. È un comizio, stavolta anche efficace, che mira a descrivere Meloni come asservita a Trump e a Musk, “complice silenziosa di un progetto di destrutturazione della Ue”. Schlein sfrutta le parole di Molinari, “Meloni non ha il mandato per approvare il ReArm”, per parlare di “premier commissariata dalla Lega”. Chiude chiedendo, non per la prima né per la decima volta, alla premier di dichiararsi antifascista. Probabilmente, anche stavolta invano.