I 5 quesiti referendari
Jobs Act e cittadinanza: ai referendum 5 Si
Voterò a favore dei 5 quesiti perché miglioreranno le condizioni dei lavoratori e di chi vive qui da straniero. Ma va fatta chiarezza: la legge renziana era così mal congegnata che la Consulta l’ha già spazzata via...
Politica - di Cesare Damiano

In quest’epoca di grandi rivolgimenti geopolitici e culturali nel dibattito italiano sembra che molti stiano riscoprendo e rivalutando il pensiero e, soprattutto, le massime del grande timoniere Mao. In particolare, appare tornata di moda la formula “Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente”.
Mao si riferiva ovviamente alla condizione della società cinese, mentre oggi questa massima viene inconsapevolmente adottata da diversi commentatori con riferimento ai prossimi 4 referendum in materia di lavoro, promossi dalla Cgil e su cui sono state raccolte ben 4 milioni di firme. La confusione regna sovrana soprattutto rispetto al primo quesito referendario, quello che chiede l’abrogazione integrale del decreto legislativo 23/2015, raccontato erroneamente come il referendum contro il Jobs Act.
Quella passata alle cronache come Jobs Act era in realtà una Legge Delega (L. 183/2014) che, oltre al già citato decreto legislativo 23/2015, ha dato vita anche ad altri 7 decreti legislativi relativi alle seguenti materie: introduzione di nuovi ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria – D.Lgs. 22/2015; conciliazione tra tempi di vita e di lavoro – D.Lgs. 80/2015; riordino dei contratti di lavoro e della disciplina delle mansioni – D.Lgs. 81/2015; semplificazioni in materia di lavoro e pari opportunità – D.Lgs. 151/2015; politiche attive – D.Lgs. 150/2015; attività ispettiva in materia di lavoro e legislazione sociale – D.Lgs. 149/2015; riorganizzazione della disciplina degli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro – D.Lgs. 148/2015.
Tutte queste materie non sono oggetto di referendum. Ed è vero che, in alcuni casi, questi interventi normativi sono stati migliorativi rispetto alla situazione precedente. Per esempio, sono state introdotte importanti misure per la tutela della maternità delle lavoratrici e per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e sono state apportate alcune importanti semplificazioni nella disciplina di diversi istituti di regolamentazione dei rapporti di lavoro.
IL PRIMO REFERENDUM: QUEL CHE RESTA DEL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI
Ma tutto ciò ha però poca o nessuna relazione con il quesito referendario che invece chiede la cancellazione del decreto legislativo 23/2015, ovvero di quel provvedimento che ha introdotto il contratto a tutele crescenti e che ha cancellato il diritto alla tutela reale, vale a dire la reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015, data di approvazione del Decreto. A quel tempo ero presidente della commissione Lavoro alla Camera che approvò il Parere finale con alcune condizioni vincolanti, tra le quali la reintegrazione nel posto di lavoro nelle ipotesi di licenziamento illegittimo. Condizione che fu purtroppo totalmente ignorata dal Governo.
La “grande idea” del contratto a tutele crescenti è stata considerata incostituzionale dopo solo tre anni dalla sua entrata in vigore, con la sentenza 194/2018. Il giudice delle leggi ha contestato il criterio di indennizzo “meccanico” calcolato in ragione di due mensilità per ogni anno di anzianità, entro un arco di mensilità indicate originariamente in un minimo di 4 e un massimo di 24. Solo successivamente, con il cosiddetto “Decreto Dignità” (87/2018), tali limiti sono stati portati rispettivamente a 6 e 36. Per la Corte questo meccanismo pregiudica ogni possibilità di intervento e valutazione del giudice nella determinazione dell’indennizzo, il quale può tenere conto di criteri quali il numero complessivo dei dipendenti, le dimensioni dell’attività economica, la posizione soggettiva del lavoratore. Ma, non basta. Successivamente, con la sentenza 150/2020, la Corte ha censurato il meccanismo di indennizzo per i licenziamenti caratterizzati da vizi formali e procedurali, calcolato in ragione di una mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio.
Peraltro, la Corte è intervenuta anche con un’altra sentenza, la 59/2021, riferita alla legge Fornero nella quale, di fronte alla cosiddetta “manifesta insussistenza, della motivazione del licenziamento, da ritenersi perciò illegittimo, viene data al giudice la facoltà di scegliere tra un indennizzo monetario e la reintegrazione nel posto di lavoro”. La sentenza definisce incostituzionale quest’ultima parte del dispositivo per cui viene sancita non la facoltà, ma l’obbligo alla reintegrazione
Infine, con la sentenza 128/2024, è stato censurato il fatto che il diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro sia previsto solo in caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e non anche oggettivo, qualora nel giudizio sia stata dimostrata l’insussistenza del fatto materiale addotto dal datore di lavoro. E, come se ciò non bastasse, con la sentenza 183 del 2022, che pure ha rigettato l’eccezione di costituzionalità con riferimento ad altre parti del medesimo decreto legislativo 23/2015, la Corte ha ritenuto come indifferibile la riforma della disciplina dei licenziamenti, in quanto “materia di importanza essenziale per la sua connessione con i diritti della persona del lavoratore e per le sue ripercussioni sul sistema economico complessivo”.
È difficile rinvenire altri esempi di riforme che, nel giro di pochi anni dalla loro entrata in vigore, abbiano subito altrettante censure di illegittimità costituzionale. Crediamo che un legislatore illuminato dovrebbe interrogarsi sul fatto che, non una diversa maggioranza politica ha smontato una legge sulla quale si era posta tanta enfasi, ma che la stessa fosse talmente mal congegnata da risultare per ben tre volte in contrasto con la Costituzione. E, al di là dei profili costituzionali, rimane il merito politico della scelta fatta allora e di quanto rimane dopo le censure della Corte. L‘obiettivo di tale intervento legislativo, finalizzato a cancellare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, dal forte impatto simbolico, era quello di riconoscere al datore di lavoro la libertà di licenziamento, anche quando non ricorrano i presupposti oggettivi o soggettivi, avendo la certezza di poter incorrere solo nel pagamento di un risarcimento pecuniario, il cui importo fosse già predeterminato e conoscibile anticipatamente.
Si replica che queste sono valutazioni ormai superate, visto che la Corte costituzionale ha smantellato il contratto a tutele crescenti. Si può convenire sul fatto che il contratto a tutele crescenti sia stata una creatura dalla vita brevissima, ma rimane in piedi la cancellazione del diritto alla reintegra nel proprio posto del lavoro in caso di licenziamento illegittimo per i lavoratori dipendenti assunti successivamente al 7 marzo 2015. L’effetto abrogativo proposto dalla Cgil sarà quello di estendere a tutti i lavoratori di imprese con più di 15 dipendenti, a prescindere dalla data di assunzione, le tutele previste dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, nella versione “attenuata” immaginata dalla riforma Fornero del 2012. Come noto, infatti, nel nostro ordinamento l’istituto referendario può avere solo effetti abrogativi e non propositivi; quindi, attraverso tale strumento, non è possibile reintrodurre le garanzie previste nel 1970. Infine, la lamentata riduzione, da parte di alcuni, dell’indennità da 36 a 24 mesi in caso di esito positivo della consultazione referendaria, in realtà è un’ipotesi residuale, riferentesi a una casistica molto limitata. Un effetto ampiamente compensato dall’estensione anche agli assunti dopo il 7 marzo 2015 della tutela reale della reintegrazione in tutti gli altri casi.
A chi poi attribuisce all’abbassamento della tutela il merito di un aumento dell’occupazione replichiamo dicendo che questo è stato piuttosto un effetto dell’incentivo del 2015, per un periodo di tre anni, di 8.060 euro per ogni nuovo assunto, poi precipitato a 3.250 euro insieme alle assunzioni, nel 2016 e nel 2017, sempre per un periodo di tre anni. Quindi una sorta di effetto doping del mercato del lavoro che ha esaurito rapidamente l’effetto positivo. Oltre a quello fin qui analizzato vi sono altri 3 quesiti referendari in materia di lavoro e quello sulla cittadinanza promosso dal segretario di +Europa, Riccardo Magi, con il sostegno di varie organizzazioni.
GLI ALTRI TRE REFERENDUM IN MATERIA DI LAVORO
Gli altri 3 quesiti referendari in materia di lavoro riguardano:
1) l’abrogazione delle norme che facilitano i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese, che impongono un tetto massimo all’indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato nelle piccole aziende e impediscono che sia il giudice a determinare il giusto risarcimento senza alcun limite. A tale fine si propone di abrogare alcune disposizioni dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604;
2) l’abrogazione delle norme che hanno liberalizzato l’utilizzo del lavoro a termine, neutralizzando le causali specifiche e temporanee, precedentemente previste, attraverso la cancellazione di alcune disposizioni dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81;
3) l’abrogazione delle disposizioni dell’articolo 26 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, che impediscono, in caso di infortunio sul lavoro negli appalti, di estendere la responsabilità all’impresa appaltante. Ad un primo sguardo d’insieme si può individuare il filo che lega le diverse proposte abrogative: una netta presa di distanze dalla stagione che ha visto una progressiva erosione e svuotamento del sistema di regole a tutela dei lavoratori, ipotizzata quale strategia per favorire la competitività del nostro sistema economico. Una strategia di ridimensionamento del fattore lavoro che, oltre a ridurre i diritti per milioni di lavoratori, non ha prodotto gli effetti auspicati neanche sotto il profilo del rilancio economico e della produttività complessiva.
IL REFERENDUM SUI TEMPI DI CONCESSIONE DELLA CITTADINANZA
La Consulta ha poi promosso anche un altro Referendum, quello sulla cittadinanza per gli extracomunitari che punta al dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la presentazione della domanda di concessione della cittadinanza. In molti Paesi europei, come Francia e Germania, il periodo di residenza necessario per ottenere la cittadinanza è già ora di 5 anni. Si vota per i 5 Referendum su Lavoro e Cittadinanza l’8 e 9 giugno prossimi.. Andrò a votare e voterò 5 SI perché ritengo che i 5 quesiti vadano tutti nella direzione di migliorare le condizioni dei lavoratori e dei cittadini.
Ciò, ovviamente, da affiancare con l’azione di proposta legislativa che dovrà successivamente intervenire sui temi adesso oggetto di referendum abrogativo. Si tratta, in sostanza, di dare ordine a questa complessa materia e, soprattutto, di tenere conto di quanto affermato dalla Corte Costituzionale nel 2022 a proposito della necessità indifferibile di riformare la disciplina dei licenziamenti in quanto “materia di importanza essenziale per la sua connessione con i diritti della persona del lavoratore e per le sue ripercussioni sul sistema economico complessivo”.. Un tema sul quale il legislatore avrebbe già dovuto mettere mano e che ora potrà essere, in parte, risolta dai referendum.
Cesare Damiano, già ministro del Lavoro, è presidente dell’Associazione Lavoro&Welfare che, con il suo Centro Studi, fornisce rapporti e analisi aggiornate sui temi sociali.
Per avere informazioni: cesaredamiano.org, LavoroWelfare.it, sanitacomplementare.it