L'affondo del Quirinale

Lezione di storia di Mattarella a Meloni: “A Ventotene grandi statisti”

Il capo dello Stato ricorda alla premier il contesto in cui sono nati gli scritti di Spinelli e li elogia. Altolà di Meloni alla Lega: “Basta o frana tutto”

News - di David Romoli

25 Marzo 2025 alle 12:30

Condividi l'articolo

Lezione di storia di Mattarella a Meloni: “A Ventotene grandi statisti”

L’affondo di Mattarella sul caso Ventotene e i rapporti tesi con Salvini. Non sono giorni propriamente rosei per Meloni il suo governo. Rispondendo alle domande di alcuni ragazzi al Villaggio “Agricoltura è”, in occasione dell’anniversario delle firma dei Trattati di Roma, il capo dello Stato ha silurato la politica di appeasement di Giorgia nei confronti di Trump. “I dazi – ha tuonato Mattarella – creano ostacoli ai mercati, alterano il mercato, penalizzano i prodotti di qualità e questo per noi è inaccettabile ma dovrebbe essere per tutti i Paesi del mondo inaccettabile”.  Inaccettabile, quindi anche per l’Italia. Che invece lascia fare, giustifica, divaga. Mattarella sottolinea anche che “una collaborazione su regole leali è indispensabile”, la risposta, però, “non sono i dazi ma le regole da far rispettare”, ha aggiunto. E proprio sull’Unione europea, il Capo dello Stato tiene a precisare che si tratta di un “modello imitato nel mondo” e “dimostra quanto sia stata un’esperienza straordinariamente di successo”. Ma “naturalmente ha lacune da colmare come processi decisionali più veloci”, evidenzia Mattarella: “Servono risposte veloci e tempestive. L’Europa ha bisogno di aggiornarsi”, ha aggiunto. Ma ricorda anche che quello della nascita dell’Ue “è stato un grande fenomeno storico a cui si è aggiunto l’Euro”.

A pochi giorni dalla polemica sul Manifesto di Ventotene, il capo dello Stato assesta una vigorosa picconata all’intemerata di Meloni contro gli esiliati di Ventotene. Bisogna “riflettere al contesto in cui si muoveva” in quegli anni. “Nel 1945 – ha precisato Mattarella – l’Italia usciva da una guerra devastante. Vi erano state brutali dittature e l’abisso dell’olocausto”. E proprio in questo “di tragedie, di disperazioni” ci sono stati “alcuni statisti lungimiranti e coraggiosi” che “cercarono di capovolgere un’idea, fu una rivoluzione di pensiero. Mettere insieme il futuro dell’Europa. Questo è stato il tentativo da statisti coraggiosi e lungimiranti”, ha aggiunto.

Asperità al Quirinale, asperità anche in casa, per Giorgia Meloni. Per una volta conviene prendere sul serio il pittoresco viceministro della Giustizia Andrea Delmastro: “Mai e dico e ripeto mai, anche se in politica avverbi così perentori non si dovrebbero mai usare, troverete il centrodestra diviso su un solo voto di politica internazionale”. Il fedelissimo di Giorgia Meloni allude evidentemente solo al Parlamento italiano, dal momento che in quello europeo il voto diviso della destra italiana è la norma. In Italia no però e quello di Delmastro è un avvertimento preciso che fissa un paletto: “Finché le provocazioni e gli sgambetti della Lega sulla politica estera si traducono solo in parole si va avanti come se niente fosse. Se quelle parole diventano spaccatura in qualche momento del voto la musica cambia e la maggioranza frana”.

Anche le parole, per la verità, irritano la premier. Il messaggio dell’europarlamentare Fidanza, un altro che non parla senza il semaforo verde della leader, non potrebbe essere più esplicito. Prima riprende le parole dell’esasperato Tajani: “In politica estera la linea la danno il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri”. Poi aggiunge un carico rilevante: “È una fase talmente delicata che meno distinguo ci sono e meglio è”. Insomma sarebbe ora che Salvini tenesse a freno la lingua. Non succederà. Il capo dei senatori leghisti Romeo, pacato, prova anche lui a chiarire quali sono i limiti: “Dovremmo cercare un po’ tutti di abbassare i toni. Ma in un momento così complicato il leader di un partito importante come la Lega ha tutto il diritto di esprimere opinioni anche sulla politica estera e di avere relazioni internazionali come tutti i leader”. Inutile sperare di imbavagliare Salvini ma, per quanto infastidita dalle provocazioni della Lega e pur sentendosi a ragion veduta minacciata dall’attivismo transoceanico del vicepremier, probabilmente sino a che la guerriglia si limiterà a questo la premier non forzerà la mano.

Diversa però è la situazione di Tajani. Il nervosismo del capo di Fi è evidente. L’aver alluso chiaramente alla Lega, sia pur non citandola apertamente e poi smentendo ogni riferimento al Carroccio, con la formula “un partito quaquaraqua parla e dice senza riflettere e studiare” va oltre la pur spinta normalità delle baruffe nella destra. La telefonata a Meloni con la minaccia di chiedere “una verifica”, parola proibita, se la Lega continuerà a martellare anche dopo il congresso del 5 aprile dimostra che la tensione per il leader azzurro è già oltre i livelli di guardia. Non dipende solo dalle intemerate di Salvini o Durigon: quelle il vicepremier azzurro le aveva sempre incassate senza fare una piega, ostentando anzi serafica indifferenza. Ora invece è Salvini a mostrarsi quasi beffardo: “I rapporti con Tajani sono splendidi, splendidi”. Il problema è che negli ultimi due mesi è cambiato tutto negli equilibri dell’Occidente, dell’Europa e di conseguenza anche in quelli della destra italiana. Finché l’orizzonte di Giorgia era il progressivo avvicinamento al Ppe, la presa di distanza dai rumorosi ma disarmati Patrioti, l’intesa perfetta con Ursula von der Leyen, un atlantismo senza riserve che assicurava i legami con Washington, il leader di FI poteva incassare senza una piega i colpi della Lega, anche perché andavano puntualmente a vuoto e in quel quadro non avrebbe potuto essere diversamente. A garantire l’asse con FdI non era solo la comune insofferenza nei confronti dell’alleato molesto, quella in sé ci sarebbe ancora. Era invece soprattutto un equilibrio complessivo e una convergenza strategica che in due mesi di amministrazione Trump sono stati spazzati via. Ora la premier deve restare in ottimi rapporti con una Casa Bianca opposta a quella del passato, tenersi in precario equilibrio tra Washington e Bruxelles anche al prezzo, inevitabile, di allentare i rapporti con il Ppe e con l’amica von der Leyen, spostarsi su una posizione che, stavolta, lascia più isolati i popolari italiani, insomma i forzisti. Con la sua frenetica attività diplomatica, oltretutto, Salvini condiziona Giorgia che non può permettersi di lasciare al Carroccio il ruolo di sponda di Washington in Italia.

In più Tajani deve anche vedersela con gli azionisti di maggioranza del suo partito, quella famiglia Berlusconi che mira a fare di FI una forza liberale, liberista sì in economia ma anche attenta a quegli stessi diritti che nell’America di Trump sono presi ogni giorno di mira. Tra l’alleata che non intende prendere alcuna distanza da Trump e i figli del gran capo che detestano il trumpismo, Tajani si trova sotto una specie di fuoco incrociato. Per lui dunque, oltre un certo limite anche le parole leghiste potrebbero diventare troppo.

25 Marzo 2025

Condividi l'articolo