L'appello da Rebibbia
L’emergenza carcere c’è ed è l’emergenza della civiltà
Dopo la lettera all’Unità, e dopo un dibattito in parlamento segnato dalla totale assenza del governo, l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno e Fabio Falbo (anche lui detenuto) tornano a rivolgere un appello a politici e magistrati
Giustizia - di Redazione Web

Riceviamo e pubblichiamo una lettera da Rebibbia firmata da Gianni Alemanno e Fabio Falbo.
Caro Direttore
volevamo ringraziarla per aver pubblicato la nostra lettera sul suo giornale, anche se la maggior parte dei parlamentari non ne hanno tenuto conto nel corso del recente dibattito parlamentare, portando avanti lo slogan della sicurezza e non quello dei diritti. Le chiediamo un suo aiuto per non far spegnere del tutto l’attenzione sulla questione carceri.
Crediamo nel dialogo nel confronto per non far smorzare la fiammella della speranza di tutte le 62000 persone recluse affinché si possa ripristinare lo stato di diritto violato.
Con la dovuta franchezza possiamo affermare che quella politica che non vuole ripristinare la legalità negli istituti di pena deve “affrontate le conseguenze delle sue sconfitte” se si considera il carcere come una porzione dello Stato.
Questa perenne emergenza carceraria dura da anni ed è rimasta così, quasi immutata, al punto che alcuni politici hanno smesso di lavorare seriamente al problema, vista la capacità dì rimozione mostrata, durante la seduta parlamentare, presentando le patrie galere come luoghi non sovraffollati che rispettano i diritti umani. Si deve ricordare a questi politici che nelle patrie galere vi sono esseri umani e che la pietà deve appartenere allo spirito dei nostri tempi se non si vuole ridurre tutto a vendetta sociale. Anche perché uno dei canoni costituzionali è il riconoscimento della dignità umana, in cui si legano la pietà laica e la carità cristiana.
Visto che una parte del mondo politico sembra disinteressato a quello che noi avevamo scritto nell’ultima lettera inviata a “l’Unità”, ci vogliamo adesso rivolgere agli Uffici di sorveglianza che oltre a vigilare sugli istituti di pena, sono anche “Giudici della persona” che hanno il compito di decongestionare le predette strutture penitenziarie con i vari istituti giuridici già oggi esistenti.
Dobbiamo far capire che una qualunque struttura penitenziaria sovraffollata, non solo rende la vita impossibile alle persone detenute, ma rende frustrante il lavoro di tutti gli operatori penitenziari e in particolare dei Giudici delle persone.
La funzione del Magistrato di Sorveglianza è quella di sovrintendere all’esecuzione della pena non intesa come punizione e basta. Vi è una componente retributiva nella pena, ma questa componente retributiva viaggia di pari passo con la finalità rieducativa stabilita dalla Costituzione, che ad un certo punto supera e diventa preponderante rispetto a quella retributiva, per cui il lavoro del Giudice della persona ha un valore nel momento in cui riesce a gestire, a guidare e ad aiutare un percorso di reinserimento sociale che deve essere il punto di arrivo dell’esecuzione penale.
Allo stato attuale come si può pensare di gestire questo “sterminato” materiale umano che non può essere guidato e aiutato in un percorso di reinserimento? Come possiamo pensare a quel fine ultimo di restituire alla società il reo come un soggetto che non è più quello che è entrato (fatti salvo i casi di professata innocenza)?
Davanti ad un sistema carcerario collassato, il lavoro di un qualsiasi operatore (basti pensare che un solo psicologo o educatore ha circa 200 persone da gestire, per non indicare il dato di un Giudice della persona) diventata frustrante, innanzitutto perché non vi è quella giusta conoscenza, dialogo o altro.
Se non c’è speranza di uscire dal circuito penitenziario è chiaro che qualsiasi attività rieducativa intesa come cambiamento del modo di pensare non ha senso, è fatica sprecata. Noi non vogliamo pensare sia così o che sia sempre così, vogliamo sperare in un’attuazione dell’ordinamento penitenziario nei termini indicati e non come il più delle volte accade a fine pena. Vi sono tanti istituti giuridici affinché la persona possa finire l’espiazione non sempre in carcere.
Vi è bisogno di una revisione periodica della pena, ci deve essere sempre una possibilità di rivedere, altrimenti nulla ha senso, neanche la stessa pena. Tanto vale mettere una persona sulla luna e lì lasciarla dicendole: se rimani vivo bene, se no pazienza, la società non sa cosa farsene di te.
Attualmente il carcere è come se fosse finalizzato a un’unica esigenza della società, che è quella di eliminare dal suo contesto degli indesiderabili cancellandoli anche nelle dignità.
La dignità è rispetto al contesto umano in cui si vive: questo attuale carcere serve a bollare le persone come indegne di vivere nella società dove ogni essere umano si deve esprimere.
Vogliamo chiudere questa lettera con quella Speranza desiderata da tutte le persone detenute, ricordando che le tematiche appena descritte non sono drammi solo di chi ne è colpito, ma possono ripercuotersi su tutti noi, anche su chi ci legge.
L’augurio da fare a quella parte di politica che finge di non sentire i lamenti non violenti della popolazione detenuta, è che la sconfitta che sta nel non voler risolvere l’emergenza carceri non resti perenne, visto che le condizioni delle carceri sono la misura della civiltà di una nazione.
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