Il nuovo decreto Albania

Perché il decreto Albania è illegale: il diritto europeo non autorizza Meloni a gestire un Cpr fuori dall’Ue

Il diritto europeo non autorizza un paese membro a collocare e gestire uno proprio Cpr al di fuori del territorio dell’Ue. Gli stranieri trattenuti devono poter incontrare familiari, avvocati, autorità consolari, ong. I parlamentari come il garante dei detenuti, devono poter effettuare visite ispettive.

Politica - di Gianfranco Schiavone

29 Marzo 2025 alle 08:00

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AP Photo/Vlasov Sulaj, File – Associated Press / LaPresse
AP Photo/Vlasov Sulaj, File – Associated Press / LaPresse

La modifica della legge 14/24 di ratifica del Protocollo tra Italia e Albania stravolge del tutto l’originaria finalità del Protocollo, prevedendo che non siano portate in Albania solo persone soccorse in acque internazionali. Il nuovo decreto varato ieri dal governo introduce la possibilità di utilizzare la struttura del centro di Gjader, come un qualsiasi altro Cpr italiano trasportandovi stranieri che nulla hanno a che fare con le operazioni di soccorso in mare ma si trovano in Italia e il cui trattenimento era già in atto.

Il Governo afferma che non è necessario modificare il Protocollo tra Italia ed Albania ma ciò equivale a rivendicare una sorta di truffa delle etichette dal momento che le finalità del Protocollo vengono profondamente modificate. Il dibattito parlamentare dovrà tenere in massimo conto tale distorsione. Può uno Stato membro dell’Unione Europea collocare uno straniero di cui è stata già decisa l’espulsione coattiva da attuarsi attraverso il trattenimento amministrativo in una struttura ubicata fuori dal proprio territorio, in un paese terzo, assicurando comunque il rispetto delle procedure e degli standard previsti dal diritto europeo sugli allontanamenti forzati? Può quindi decidere di aprire una tale tipologia di centro oggi in Albania e domani magari altrove, ad esempio nello Zimbabwe, o in Nuova Guinea, o magari negli USA? Sono queste in fondo le domande cui va data una risposta per valutare la legittimità o meno della decisione assunta dal Governo italiano.

Come la protezione internazionale, anche la materia dei rimpatri dei cittadini stranieri che non sono in regola con le norme sul soggiorno in uno stato membro dell’Unione è regolata (seppure in modo ben più scarno rispetto al diritto di asilo) dal diritto dell’Unione Europea sulla base della Direttiva 115/08/CE oggetto di una proposta di riforma presentata pochi giorni fa dalla Commissione Europea e che ho analizzato sull’edizione dell’Unità del 13 marzo 2025. Nella Direttiva 115/08/CE sui rimpatri per «allontanamento» si intende “l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico fuori dallo Stato membro” (art 3 par. 5) e per «rimpatrio» si intende “il processo di ritorno di un cittadino di un paese terzo, sia in adempimento volontario di un obbligo di rimpatrio sia forzatamente” (par.3). Il rimpatrio normalmente si conclude nel paese di origine, ma secondo la Direttiva potrebbe concludersi anche in un paese terzo che svolge la funzione di “paese di transito in conformità di accordi comunitari o bilaterali di riammissione o di altre intese” (par.3 seconda parte).

In tale caso il paese terzo si assume interamente la responsabilità della condizione giuridica della persona espulsa e il processo di rimpatrio realizzato dallo Stato membro dell’Unione si conclude con l’allontanamento della persona in tale Paese terzo. Non sembra, a parere di chi scrive, che il diritto dell’Unione autorizzi in alcun modo la collocazione e la gestione da parte di un Paese UE di una propria struttura di trattenimento al di fuori del territorio UE. Non si tratta di dare del testo della norma europea un’interpretazione meramente letterale bensì sostanziale e teleologica: ben lontano dalle esasperazioni politiche che agitano il nostro oscuro presente, il diritto UE non ha finora mai contemplato la possibilità che centri di trattenimento europei possano venire aperti a piacimento in giro per il mondo e prevede che il trattenimento per eseguire l’espulsione dal territorio di uno Stato membro dell’Unione può essere applicato solo come ultima ratio, se non “possono essere efficacemente applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive” e “soltanto per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento” (art. 15 par. 1), inteso, come sopra indicato, come il trasporto fisico fuori dal territorio UE. “Il trattenimento deve essere il più breve possibile, deve essere periodicamente riesaminato per valutare in concreto se ci sono le ragioni per proseguirlo e se non c’è alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi … il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata (art. 15 par. 4).

Gli stranieri trattenuti devono avere la possibilità “di entrare in contatto, a tempo debito, con rappresentanti legali, familiari e autorità consolari competenti” (art. 16 par.2) nonché con organizzazioni non governative di tutela, le quali “hanno la possibilità di accedere ai centri di permanenza temporanea” (art. 16 par.4). L’accesso a tali diritti deve essere effettivo, non può solamente essere sancito ma non essere concretamente esercitabile, come avverrebbe in caso di strutture ubicate al di fuori del territorio dello Stato membro dell’UE. Il familiare non può in concreto incontrare chi è trattenuto se il centro di detenzione si trova in Zimbabwe o in Kazakhistan e sarebbe del tutto privo di ogni logica sostenere che l’Albania non presenta problemi perché in fondo è geograficamente vicina, giacché l’effettività dell’esercizio dei diritti garantiti ai trattenuti non è questione di chilometraggio. A ben guardare neppure le visite ispettive svolte da parlamentari e le stesse funzioni di monitoraggio e controllo svolte dal Garante nazionale per le persone private della libertà personale potrebbero essere svolte in modo efficace in strutture ubicate al di fuori del territorio nazionale. Nei centri di detenzione ubicati al di fuori degli Stati dell’Unione non risulta dunque possibile attuare il trattenimento dei trattenuti “nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali (considerando n. 17) e semmai ben si può ritenere che le persone che vi verrebbero rinchiuse assomiglierebbero ad ostaggi di un potere arbitrario”.

Ma, si potrebbe obiettare, l’esistenza di un Cpr all’interno del centro polifunzionale di Gjader non era già prevista proprio dalla stessa legge 14/24 di ratifica del Protocollo tra Italia ed Albania che viene modificata, anche se limitatamente ai richiedenti asilo trasportati in Albania dopo il soccorso in acque internazionali e la cui domanda di protezione era stata respinta? Certamente sì, ma ciò non vuol dire che si trattasse di per sé di una previsione legittima. Il contenzioso giudiziario sui centri in Albania si è sviluppato attorno all’idea (di cui lo stesso Governo ha celebrato il funerale, pur negando di averlo fatto) che fosse possibile trasportare coattivamente in Albania il maggior numero possibile di persone soccorse in acque internazionali che chiedono asilo all’Italia, applicando un’interpretazione del tutto ardita della nozione di paese di origine sicuro, e comunque prevedendo un trattenimento generalizzato di tutti i richiedenti asilo nella parte del centro di Gjader destinata ad hotspot. Di come la vicenda si sia evoluta ne ho scritto più volte e non ci ritorno; mi limito ora solo ad osservare che la nuova decisione di trasformare parte o tutta la struttura di Gjader in un centro di trattenimento per il rimpatrio apre a nuove e gravi questioni giuridiche di conformità con il diritto dell’Unione che finora erano rimaste quiescenti.

29 Marzo 2025

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