Le testimonianze da Sfax
Tra ruspe e spari così il governo tunisino impone i rimpatri volontari
Ecco come il governo tunisino convince i trentamila rifugiati tra gli ulivi alle porte di Sfax a cedere ai rimpatri “volontari”. Rasa al suolo anche la clinica dei migranti del Black medical team
Cronaca - di Angela Nocioni

Spari alle spalle e ruspe sulle tende. La Tunisia ha raso al suolo anche la clinica fatta di teli e bambù dove opera(va)no in condizioni disperate i medici volontari del black legal team, il dottor Ibrahim e l’infermiera Patricia. È così che il governo tunisino, finanziato dal governo Meloni e dalla Ue, convince i migranti ai rimpatri volontari.
Nella periferia di Sfax, dove tra la sabbia e le rocce si sono rifugiate trentamila persone tra gli ulivi, le ruspe stanno distruggendo gli accampamenti profughi come peraltro annunciato il 3 aprile dal portavoce della Guardia nazionale tunisina, Houssem El Din Jebabli che, mentendo, aveva parlato di “assistenza” prevista per gli sfollati. Chi da lì sta scappando per sottrarsi alla violenza delle autorità tunisine racconta invece di agenti che rubano e danno fuoco a tutto quel che trovano. Medicine, cibo, scorte d’acqua: si son presi tutto le guardie, raccontano. Alcuni dei migranti, arresisi al piano dei rimpatri nel tentativo di non farsi ammazzare in Tunisia, stanno andando a Tunisi dove si metteranno in fila davanti agli uffici della Organizzazione internazionale per le migrazioni per aderire al piano rimpatri “volontari”. Appuntamenti dati tra due, tre, quattro mesi, nessuna idea di come e dove farli sopravvivere nel frattempo. Altri si sono spostati nella sabbia più avanti tra gli ulivi dove stanno creando altre tendopoli.
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Diceva ieri un tunisino rifugiato in Europa: “Due giorni fa ho seguito il caso di un migrante proveniente dal Mali, colpito da un’arma da fuoco a Sfax. Abbiamo fatto tutto il possibile per farlo trasferire in ospedale, poiché le sue condizioni erano critiche. Alle 7 del mattino è stato portato all’ospedale di Sfax. Dato che la ferita era alla schiena, i medici gli hanno fatto fare una radiografia. Dopo è stato trasferito per le analisi del sangue. Una donna che stava lì facendo le pulizie ci ha detto che, dopo averlo visto, è andata a prendergli delle ciabatte e una maglietta, ma al suo ritorno era scomparso. Da ieri lo stiamo cercando, ma senza risultati. Il giorno dopo un altro migrante, originario della Guinea, è stato ferito da un colpo di arma da fuoco e portato nella tenda di plastica dove volontari hanno approntato un rudimentale pronto soccorso, ma non ce l’ha fatta. È morto. Nel frattempo, le ruspe hanno raso al suolo l’intero campo ad Alamra, ora i migranti sono dispersi tra gli uliveti. La situazione si sta aggravando”.
Il morto è Alseny Togbodoun, 32 anni. Questi i messaggi telefonici di uno dei testimoni: “Stamattina hanno sparato a un migrante. La situazioni diventa sempre peggiore. Sembra che a questo ragazzo della Guinea ucciso, abbia sparato lo stesso tizio tunisino”. Ad entrambi qualcuno ha sparato a freddo mentre camminavano. Ha dichiarato all’Agenzia Dire una infermiera, anche lei migrante: “Verso le 4 del mattino Alseny è stato portato da me da alcuni suoi compagni, perdeva sangue da tre ferite, una delle quali dietro un orecchio, un’altra all’esofago. Non riusciva a respirare, già manifestava condizioni critiche. Ho chiamato molte volte i soccorsi che però non sono venuti, ho cercato di assisterlo come ho potuto ma è morto dopo l’alba. Abbiamo già informato i suoi familiari”.
La clinica distrutta dalle ruspe mandate dal governo tunisino era stata costruita con un crowfunding e con donazioni internazionali. Lì lavora(va) il dottor Ibrahim, un medico della Sierra Leone, anche lui migrante. Ha raccontato di recente ai ricercatori di Memoria mediterranea che hanno fatto un lungo lavoro sul campo tra gli uliveti di Sfax. “Sono arrivato in Tunisia nel gennaio del 2024, anche io come tanti volevo raggiungere l’Europa. La situazione dal punto di vista umanitario era tremenda quindi ho investito tutte le mie forze. Non potevo chiudere gli occhi, non potevo andarmene. Io sono un medico e non potete immaginare che situazione ci sta qui a Sfax, nei campi delle olive. Sono il fondatore del black medical team a Sfax, dove lavoriamo, nel deserto, in mezzo ai campi di migliaia di migranti, come volontari senza pausa da oltre un anno ormai. Ognuno di noi ha la sua responsabilità nei diversi chilometri degli oliveti, ad esempio la struttura del km 33 copre anche il km 31, 32 e 34. Siamo anche noi migranti e proviamo ad aiutare i migranti come noi. La realtà di Sfax è fatta da diversi chilometri a cui corrispondono gruppi differenti: al km 38 si trova il mio ospedale. In questi chilometri vivono in condizioni disumane migliaia di persone tra uomini donne e bambini. Il mio telefono squilla in continuazione per richieste di aiuto di ogni tipo e per vari tipi di malattie. Con me ci sono altre persone: abbiamo affrontato malattie infettive, malattie dovute alla mancanza di ogni bene e lesioni provocate dalla violenza di polizia. Tutti i soldi che arrivano li utilizziamo per le medicine e di beni di prima necessità”.
“Qui la polizia nei vari chilometri è venuta spesso a togliere ogni cosa lasciando le persone senza nulla. Donne e bambini che sono costrette a fare l’elemosina perché non si riesce nemmeno a mangiare. Io non so come descrivere questo disastro umanitario. Immaginate donne che devono partorire, persone con handicap, e ce ne sono tante, bambini malnutriti e che muoiono. Anche solo portarli in ospedale è difficile perché non si può fare senza soldi e spesso le persone hanno paura di finire in carcere, perché è accaduto anche questo se stai male e vai in ospedale puoi finire in carcere. Quando le persone fanno l’elemosina vengono spesso picchiate dai tunisini, anche ragazzi giovanissimi. Come nel caso di un dodicenne investito da un motorino e nemmeno soccorso che poi ho curato io e che vive al km 36”.