Femminismo e femminicidio
Intervista a Cecilia D’Elia: “Meloni e Schlein? Non basta essere donna per essere dalla parte delle donne”
«Non basta essere donna per essere della parte dei diritti donne. C’è un emancipazionismo reazionario che conferma la subalternità delle altre», dice la senatrice del Pd, in libreria con Chi ha paura delle donne.
Interviste - di Angela Stella

È da pochissimo in libreria “Chi ha paura delle donne – Libertà femminile e questione maschile” di Cecilia D’Elia (Donzelli editore, pp. 168, euro 17), femminista, senatrice e vicepresidente della Commissione bicamerale sul femminicidio. Con lei, in questa lunga intervista, affrontiamo i temi principali della sua opera legandoli alla stretta attualità.
Due giovani donne uccise negli ultimi giorni. Come legge quanto accaduto?
Tutti i femminicidi sono terribili e ogni volta ci ricordano la pervasività della violenza maschile contro le donne. Il femminicidio di Sara Campanella e quello di Ilaria Sula sono avvenuti a poca distanza temporale. In entrambi i casi si tratta di due studentesse universitarie, entrambe di 22 anni. Una uccisa da un compagno di università che non accettava di essere stato rifiutato, l’altra dall’ex fidanzato. Addolora e fa rabbia. Sgomenta l’età dei colpevoli; ci saremmo aspettate, penso alla mia generazione, che le cose sarebbero cambiate in meglio. Ed, in effetti, la fotografia che ci torna è quella di ragazze più consapevoli e determinate, ma anche quella di troppi ragazzi che non sanno convivere con la libertà delle loro coetanee. Nutrono rancore e risentimento verso la loro autonomia. Non sanno accettare dei no. C’è un lavoro culturale e politico grande da fare, innanzitutto sulla prevenzione. Serve un nuovo alfabeto emotivo ed affettivo. Il giorno del ritrovamento del corpo di Ilaria Sula sono andata la sera alla passeggiata rumorosa a san Lorenzo, per essere con le altre. La reazione è stata immediata e forte.
Se per Nordio, “alcune etnie non hanno la nostra sensibilità verso le donne”, per Valditara “il patriarcato non c’è più” e “le violenze sessuali aumentano a causa dell’immigrazione”. I due ministri secondo lei leggono il fenomeno dei ‘femminicidi’ in chiave razzista?
C’è in queste prese di posizione di alcuni ministri del governo Meloni un’incapacità di riconoscere la dinamica di dominio dei femminicidi e della violenza maschile contro le donne, il suo carattere strutturale, la sua matrice patriarcale. E, quando possibile, si sposta la responsabilità della violenza verso le culture “altre”, offrendo una chiave di lettura razzializzante. Ed è grave che la presidente del consiglio non prenda le distanze da queste dichiarazioni. Del resto la destra populista ovunque offre una risposta neo patriarcale ai cambiamenti che la libertà delle donne ha portato nel mondo. Si pensi alla cifra sessista e antiegualitaria delle politiche e del modo di fare di Trump.
A proposito di presunto razzismo cosa pensa del dl sicurezza e di quanto previsto per le detenuti madri, considerato che la norma si rivolge soprattutto alle donne rom?
Ci siamo opposti duramente al ddl sicurezza, su questo articolo e su tutti gli altri. Quello sulle detenute madri ci fa fare un passo indietro persino rispetto al Codice Rocco. Ho aderito alla campagna “Madri fuori”, promossa da Società della ragione e tante altre associazioni. Siamo riusciti a tenere fermo il ddl mesi in Senato grazie ad un impegno straordinario dell’intero gruppo del Pd, costringendo, insieme alle altre opposizioni, la maggioranza alla terza lettura. È gravissimo che il governo sia intervenuto con un decreto su una materia oggetto di dibattito parlamentare in corso. La nuova formulazione che nel decreto viene data a questo articolo è comunque sbagliata perché continua – di fatto – a prevedere la carcerazione di donne incinte e madri di neonati, seppure in istituti specializzati (che non ci sono) . Noi continuiamo a dire: “madri fuori”.
Nel codice penale entra il reato ad hoc di femminicidio prevedendo addirittura l’ergastolo come pena. Sarà efficace tutto questo per evitare altre uccisioni di donne?
Ricordiamoci che il ddl è stato annunciato propagandisticamente in occasione dell’otto marzo. Credo che il governo ci abbia riportato all’intervento penale per coprire l’assenza, e forse anche la sua resistenza culturale, sul piano dell’educazione e delle politiche di prevenzione e complessivamente delle politiche a sostegno delle donne. Sul terreno del contrasto alla violenza penso che la vera priorità oggi sia il mutamento, culturale e di immaginario, che è da assumere come un grande impegno collettivo, a cominciare dall’educazione sessuo-affettiva nelle scuole e dalla formazione degli operatori, ma non solo. Non mi sfugge però l’importanza di inserire la parola femminicidio nel codice. Un termine che, grazie al femminismo, si è affermato nel dibattito pubblico e nella cultura diffusa. Condivido la radice di genere della violenza cui quella parola rimanda. Non penso che la previsione di un reato ad hoc sia di per sé efficace nel contrasto della violenza maschile contro le donne. Né credo nell’esemplarità della pena come deterrente. Il testo è incardinato e ci sarà un percorso di audizioni e vedremo cosa ne uscirà.
Nel suo libro lei ricorda le varie piazze femministe, le diverse identità delle associazioni di donne, e come sono mutate nel tempo. Il femminismo del ‘Me too’ non crede abbia leso profondamente il diritto alla presunzione di innocenza di molte persone? È d’accordo con il celebre scrittore Philip Roth che a proposito del movimento disse: “Ascolto il lamento delle donne offese e provo solo empatia per il loro bisogno di giustizia. Ma mi preoccupa anche la natura del tribunale chiamato a giudicare queste accuse. Mi preoccupa perché non sembra esserci affatto un tribunale”?
Sinceramente, se posso, non viviamo negli Stati Uniti, ma in un Paese in cui il #metoo è stato derubricato e sottovalutato, quando non deriso, nel dibattito pubblico. Io sono perché la presunzione d’innocenza sia garantita a tutti, ma in Italia il problema neanche si è posto. In quell’occasione si è rilevata la specificità italiana di una questione maschile. Per citare Ida Dominijanni “una peculiare misoginia dell’establishment intellettuale e giornalistico italiano”. In ogni caso il #metoo ha fatto emergere il carattere sistemico della violenza, l’enormità della questione delle molestie, nei luoghi di lavoro e non solo. Forse il nostro #metoo, in modo diverso, non legato a denunce penali, ma a una presa di parola, a una denuncia pubblica e politica del sessismo diffuso lo abbiamo avuto nel 2023. Credo che il femminicidio di Giulia Cecchettin sia stato uno spartiacque.
Lei dedica una parte del libro al fatto che Meloni sia la prima presidente del Consiglio donna, Schlein la prima segretaria del Pd donna. Si è rotto il tetto di cristallo?
Sicuramente è profondamente cambiata la scena politica. Una donna presidente del consiglio e una donna segretaria della maggiore forza di opposizione sono da noi un’assoluta novità, che ci fa fare un passo ulteriore e vedere anche i limiti della metafora del tetto di cristallo. Dove cadono i cocci? Non basta essere donna per essere dalla parte della libertà e dei diritti delle donne. C’è un emancipazionismo reazionario che conferma la subalternità delle altre. Il femminismo al contrario è per tutte (e tutti) o non è.
Lei ricorda: “8 marzo 2024: sulla Tour Eiffel brilla il motto mon corps, mon choix. Si suggella così, con un’immagine potente che fa il giro del mondo ed emoziona tante di noi, l’approvazione della legge che iscrive la possibilità di abortire tra i diritti costituzionalmente garantiti”. In Italia invece andiamo nella direzione opposta: penso all’accesso di gruppi anti-abortisti nei consultori. Una contraddizione se pensiamo ad una premier donna?
Una contraddizione se pensiamo che basti essere donna per essere dalla parte dell’autodeterminazione delle donne. Ma la storia, e la cronaca quotidiana, ci insegna che così non è. L’aborto legale è questione essenziale della cittadinanza delle donne, è il riconoscimento della loro possibilità di scelta, della loro autonomia. Ma proprio per questo è sempre sotto attacco e da noi, consapevoli di non poter mettere in discussione la legge 194, cercano di aggirala o boicottarla. Ho presentato un disegno di legge costituzionale per garantire l’autonomia nella sfera sessuale e riproduttiva e l’accesso sicuro all’aborto. Parliamo di qualcosa che riguarda il cuore dell’oppressione patriarcale. Come ricordava Grazia Zuffa la colpa etica della civiltà patriarcale è l’aver cercato di dominare il timore di non-essere nati, sottomettendo la madre e il suo potere di dare la vita.
Ad un certo punto nel libro, scrivendo di aborto, lei parla, citando anche Luigi Ferrajoli, dell’habeas corpus come principio di autodeterminazione della donna, che è diritto fondamentale. Non dovrebbe valere anche per la maternità surrogata che proprio un certo movimento femminista ha voluto bollare come reato universale?
Nella discussione parlamentare, al di là delle diverse posizioni che ci possono essere sulla gpa, come democratici siamo stati tutti contro il ddl Varchi, che ha introdotto da noi il cosiddetto reato universale, che tale non può essere, punisce però gli italiani e le italiane che ricorrono alla gpa anche se lo fanno in Paesi in cui è possibile. Una mostruosità giuridica, che finisce per criminalizzare anche i figli nati da gpa e chiudere ogni discussione sul loro riconoscimento. Per tornare alla domanda, fatta salva la lotta allo sfruttamento del corpo femminile – e nel mondo c’è tantissimo sfruttamento delle donne e del loro corpo – e quindi l’attenzione alle condizioni in cui avviene la gestazione per altri, penso che vada presa sul serio e rispettata la scelta di chi accetta di portare avanti una maternità solidale. Altrimenti si corre il rischio di rendere mute le altre.
Lei scrive: “Siamo il Paese che ha il tasso di occupazione femminile tra i più bassi nell’Unione europea: metà delle donne non lavora, non è autonoma economicamente”. Come mai?
Perché non abbiamo mai adeguato l’organizzazione sociale e del lavoro, il nostro welfare, al mutamento avvenuto nella vita delle donne. Il lavoro di cura ricade in gran parte su di loro. Siamo un paese bloccato da enormi disuguaglianze di genere, a cominciare da quella sull’uso del tempo. Per questo ritengo essenziale la battaglia per i congedi paritari, per un congedo di paternità di cinque mesi come quello della madre, ma in generale vanno sostenute tutte le politiche di condivisione del lavoro di cura e di sostegno al lavoro delle donne.