L'addio all'età di 89 anni

Chi era Mario Vargas Llosa, l’uomo che usava la menzogna per dire la verità

Gli anni giovanili nel collegio militare, la passione per la sinistra e poi la svolta liberale, l’esordio folgorante. Anche la finzione più delirante e visionaria, chiosava lo scrittore, “affonda le sue radici nell’esperienza umana”

Cultura - di Filippo La Porta

15 Aprile 2025 alle 15:30

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AP Photo/Seth Wenig, File – Associated Press/LaPresse
AP Photo/Seth Wenig, File – Associated Press/LaPresse

Per capire cos’è la letteratura suggerisco sempre la lettura di una pagina di Mario Vargas Llosa (da La verità delle menzogne), scrittore immenso, narratore, saggista, polemista, nato ad Arequipa (Perù) nel 1936 e premio Nobel nel 2010. Cita un autore spagnolo del ‘400, Martorell, il quale ci racconta nel Tirant lo Blanc che l’infanta di Francia era così bianca che si vedeva il vino passarle attraverso la gola: “Ci dice una cosa tecnicamente impossibile, che, comunque, nella malia della lettura, ci sembra una verità indiscutibile” (La verità delle menzogne).

In letteratura conta non tanto la realtà, la nuda e scrupolosa cronaca dei fatti, come tendevano a pensare i neorealisti, ma un effetto di realtà. E per raggiungerlo possiamo anche un poco esagerare i fatti. Solo quando ci immaginiamo quel vino rosso che, irrealisticamente, scorre nella gola dell’infanta – dalla carnagione lunare, miracolosamente trasparente – abbiamo l’emozione di quella scena, la sua verità più intima. Confesso di aver sempre preferito Vargas Llosa a Garcia Marquez, scrittore pure gigantesco, che Pasolini volle considerare poco più di uno scenografo dotato di fervida immaginazione. I due, amici fraterni, ebbero una violenta lite a Città del Messico nel 1976, nella quale il primo – già boxeur tirocinante all’accademia militare – sferrò un pugno al secondo (ne è testimonianza una celebre foto di Garcia Marquez con un occhio nero).

La causa fu probabilmente una vicenda privatissima, intrecciata con le presunte infedeltà coniugali dello scrittore peruviano. Ma da lì si aprì un dissidio tra i due che coinvolse anche i rispettivi orientamenti politici: Garcia Marquez sempre vicino alla Rivoluzione cubana e a Castro – anche in modi acritici -, Vargas Llosa via via su posizioni di liberalismo conservatore (volle presentarsi anche alle elezioni peruviane contro Fujimori. Più ancora della giustizia sociale per lui contavano e dovevano esserci i diritti umani e civili, la democrazia e la legalità, la tolleranza e il rispetto della diversità. Come disse in un’intervista: “La differenza tra un liberale e un anarchico è appunto nel non voler accettare che in nome della libertà si crei la legge della giungla. Anche se è vero che in ogni liberale c’è sempre la tentazione dell’anarchismo”. Eppure il suo romanzo La storia di Mayta, nel 1985, su una velleitaria e immaginaria rivolta tentata in Perù negli anni 50, fu per me un momento decisivo di riflessione sull’idea stessa di rivoluzione. Mayta, nobile intellettuale trotzkista, idealista e studioso di Marx, privo di senso pratico e di qualsiasi conoscenza della psicologia umana, è un personaggio memorabile che si delinea attraverso un romanzo polifonico, formato da dieci capitoli che sono altrettanti personaggi e punti di vista.

Ma perché lo preferivo a Garcia Marquez? Perché nei suoi romanzi – ricordo i primi: La città e i cani del 1963 e Casa verde del 1966, cui seguirono (cito alla rinfusa) Conversazione nella cattedrale, La zia Julia e lo scribacchino, La festa del caprone, La guerra della fine del mondo, Le avventure della ragazza cattiva, etc. – accanto al realismo magico, al real maravilloso che la letteratura latino-americana ci ha fatto scoprire, trovavo una scrittura tesa, riflessiva, allegorica e intellettualmente responsabile, priva di fastosi barocchismi ed effetti zuccherosi. La città e i cani è uno dei romanzi più belli mai scritti sull’adolescenza (i “cani” sono i cadetti del primo anno dell’accademia militare dove lo scrittore fu mandato dal padre, un ambiente apparentemente disciplinato dove però il più spavaldo diventa leader): i personaggi del romanzo, votati al machismo, feroci ma con il senso della lealtà e dell’amicizia, primitivi e al tempo stesso dotati di un codice morale, un po’ ricordano i protagonisti di Los olvidados di Bunuel (benché borghesi e non sottoproletari). Naturalmente venne osteggiato e censurato dalle autorità militari.

Mentre La casa verde ci mostra la storia del suo paese come mito – la trasformazione di un piccolo villaggio rurale in una metropoli febbrile – , dunque attraverso la rottura del tempo storico, continuo, lineare. Come nel precedente romanzo ogni cosa attrae il suo opposto: lì l’educazione all’obbedienza produce disobbedienza e anarchia, qui al puritanesimo fanatico di una missione religiosa si contrappone la vitalissima impurità di un bordello. La zia Julia e lo scribacchino è un libro che mi ha divertito e incantato: ci rivela una passione e un elemento difficilmente trasferibile nel romanzo europeo, e cioè l’amore per il mélo popolare, per i radiodrammi (e poi telenovelas), per la sublime volgarità della cultura pop.

Vargas Llosa non è uno scrittore tradizionalista. Le sue tecniche letterarie, spesso spericolate e debitrici verso il modernismo – soppressa ogni delimitazione tra passato e presente (attraverso un uso virtuosistico del flashback) , tra narrazione e dialogo, tra il flusso di coscienza e le descrizioni oggettive – non arrivano mai però a una rottura del patto con i lettori né indulgono all’intellettualismo del metaromanzo postmoderno. I saggi letterari di Vargas Llosa sono finissimi, ariosamente antiaccademici, di grande erudizione però mai pedanti. Cito almeno La tentazione dell’impossibile, su Victor Hugo. Ma vorrei ricordare anche un suo mirabile libello su Israele e palestinesi e un fulminante saggio breve. Tra Sartre e Camus, dove l’illuminismo dello scrittore peruviano si rivolge contro ogni fanatismo ideologico Torno sull’idea di letteratura. Vargas Llosa ha detto che nei suoi romanzi – benché originati dalle proprie esperienze, ancora vive nella memoria – ci sono più invenzioni, esagerazioni, tergiversazioni che ricordi.

Ora, la la letteratura non è solo una menzogna – come amava ripetere provocatoriamente Manganelli -, ma è quella menzogna che serve per dire la verità. Altrimenti come distinguere un bravo scrittore da uno che non lo è? E, trattandosi di letteratura, sarà sempre una verità sottile e ambigua, scettica e problematica. Le menzogne dei romanzi – mai gratuite – non documentano tanto le vite dei loro personaggi ma “i demoni che le hanno turbate, i sogni con cui si ubriacavano affinché la vita che vivevano fosse più tollerabile”. Perciò leggere un romanzo – che sempre simula un possibile ordine nel vertiginoso disordine dell’esistenza – è uscire da se stessi, sperimentare i rischi della libertà, vivere molte più vite, sovvertire l’esistente. Anche la finzione più delirante e visionaria, ci ricorda Vargas Llosa, “affonda le sue radici nell’esperienza umana, di cui si nutre e si alimenta”. E proprio per questo radicamento i suoi romanzi sono destinati a durare nel tempo.

15 Aprile 2025

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