Penalisti in sciopero
La chiamano sicurezza ma è solo ferocia: manifesto della pubblica disumanità
Quello della sicurezza sembra essere diventato un super-principio, capace di smentire ogni altro valore. La minaccia del carcere diviene l’unico alfabeto con cui si declina la forza dello Stato. Qualcosa deve essersi rotto nel rifl esso pubblico sulla forza
Giustizia - di Francesco Petrelli

Il fatto stesso che il decreto legge dell’11 aprile 2025, n. 48 recepisca i medesimi contenuti del DDL in discussione davanti al Parlamento, mostra il paradosso di una necessità ed urgenza che, non presente all’epoca della presentazione di quel Disegno di legge, si sarebbero improvvisamente venute a creare in virtù di non si sa bene quali drammatici eventi.
Si tratta di un abuso della decretazione d’urgenza tanto più grave in considerazione della riproposizione di norme già da più parti sottoposte a severe critiche, da parte dell’avvocatura e dell’accademia, a causa della loro netta contrarietà ai principi di ragionevolezza, proporzionalità, offensività, eguaglianza e tassatività. E tanto più riprovevole proprio in considerazione dei valori di libertà coinvolti nella materia penale, tali da imporre una valutazione ponderata degli interessi in gioco. Ma è la stessa ingiustificata sottrazione dell’iniziativa legislativa alla sua ordinaria sede parlamentare, a dimostrare, ancora una volta, come si tratti di interventi ostentatamente simbolici e come tali privi di ogni effettiva efficacia e che, nonostante il titolo, nulla hanno a che fare con un qualche reale incremento della sicurezza dei cittadini.
Sappiamo, inoltre, che l’entrata in vigore di tali discusse norme, non farà altro che aumentare la popolazione carceraria, con ulteriore aggravio del fenomeno del sovraffollamento e con il definitivo collasso di strutture oramai allo stremo, come denuncia la drammatica sequenza dei suicidi, giunti oramai al numero di ventisei dall’inizio dell’anno. Quello della sicurezza sembra essere divenuto oggi un super-valore, un super-principio, capace di smentire ogni altro valore. Libero da ogni bilanciamento il discorso sulla sicurezza diviene pura e semplice mitologia securitaria, fatta di slogan e di parole d’ordine elementari. L’intervento politico si risolve in uno sciatto flusso di aumenti delle pene, introduzione di nuovi reati, modifica e aggravamento di alcune fattispecie già esistenti, ulteriori ostatività alla applicazione di misure alternative al carcere. La risposta punitiva si inasprisce e si estende ad ambiti prima esenti dall’intervento della penalità. La minaccia del carcere diviene il linguaggio autoreferenziale della sicurezza, l’unico alfabeto con il quale si declina la forza dello Stato. Se la prospettiva del dialogo è carcerocentrica, non solo le nuove leggi minacciano più carcere ai liberi, ma al tempo stesso precludono la libertà a coloro che sono ristretti.
La deflazione che nei Paesi europei è pratica costante e razionalmente praticata, non appena si superano determinati limiti, nel nostro Paese ogni scarcerazione è vista come una manifestazione di debolezza dello Stato. Si confonde la forza con il ghigno feroce, il rigore con la spietatezza. Le condizioni nelle quali oggi sono ridotte le nostre carceri, a causa del sovraffollamento e della cronica sproporzione fra le risorse e le necessità del trattamento, riflettono questi sentimenti. Ma qualcosa si deve essere rotto nel riflesso pubblico sulla forza. Di fronte al numero dei suicidi che mietono giovani e anziani, detenuti in espiazione di pene lunghe e con brevi fine pena, e di fronte alla conclamata incapacità delle strutture di intercettare il disagio e la disperazione, e di salvare vite umane, un varco dovrebbe aprirsi.
Di fronte alla disumanità ed al degrado delle condizioni nelle quali sono costretti a vivere sempre maggiori quote di detenuti, un ragionevole rimedio clemenziale dovrebbe proporsi. Fra il rispetto della dignità umana ed il suo disprezzo – come ci ha ricordato di recente Marco Ruotolo – si sono sviluppati storicamente i valori della nostra civiltà del diritto e delle nostre Costituzioni. Il disprezzo della dignità della persona ci è sembrato a lungo il connotato essenziale della disumanità. Oggi, Rispetto e Disprezzo lasciano tuttavia aperto uno spazio molto più esteso che è quello della indifferenza. Nei luoghi un tempo presidiati dalla contesa fra rispetto e disprezzo della dignità dell’altro, ora impera piuttosto l’indifferenza come statuto di una nuova pubblica disumanità.
*Presidente dell’Unione delle camere penali italiane