Sovranismo all'americana
Trump si piega alla Apple: via i dazi su telefoni e prodotti tech
Come pensava il gangster della Casa Bianca di poter rilocalizzare una big tech di queste dimensioni? E come pensava di mantenere integra la credibilità del debito americano, scossa dalle sue politiche bipolari?
Esteri - di Cesare Damiano

Venerdì 11 si è prodotta una svolta sbalorditiva nel gioco dei dazi di Trump. La US Customs and Border Protection, l’agenzia federale responsabile delle dogane e delle frontiere, ha annunciato che sarebbero state esentati dai dazi del 125%, imposti sulle importazioni dalla Cina, smartphone, computer portatili, dischi rigidi, processori e chip di memoria. Diversamente, il costo di un iPhone avrebbe raggiunto e superato i 2.300 dollari e la Apple si sarebbe potuta avviare verso la chiusura.
È così finita la favola raccontata dall’amministrazione Trump che i dazi avrebbero riportato negli Usa la produzione degli iPhone, così come di tante altre merci. Fatto ovvio, perché a un’impresa ad alta intensità tecnologica non può essere imposta per decreto la rilocalizzazione di una produzione estremamente complessa e i costi della quale sono critici per poter stare sul mercato. Ma non solo. Perché i ragionamenti delle imprese industriali in merito agli investimenti hanno una portata che si estende su un orizzonte di parecchi anni. E qui interviene una delle principali conseguenze dell’essere ondivaga e costantemente incoerente di questa Amministrazione. Può esistere un argomento più forte dell’instabilità per scoraggiare, o meglio, terrorizzare i potenziali investitori? In queste condizioni, quale impresa può prendere una decisione così drammatica come rilocalizzare – o delocalizzare, per quanto riguarda le aziende non americane – in Usa la propria produzione?
Un simile andamento non può che annientare la credibilità di un Paese. E questo ci porta al passo seguente. Se un Paese non è credibile, non lo è nemmeno il suo debito. E come sta il debito pubblico degli Stati Uniti in questo momento? “A metà dell’anno fiscale 2025, il deficit di bilancio degli Stati Uniti è aumentato di 1,3 trilioni di dollari. Quindi siamo arrivati a un tasso annuale di 2,6 trilioni di dollari. Questa cifra si aggira intorno al 9% del Pil. La situazione sta diventando critica”, ha commentato venerdì Jeffrey Gundlach, fondatore di un importante fondo di investimento americano. In parole povere, una prova pessima. Molto peggiore di quella di altri Paesi sviluppati.
Il disavanzo pubblico della Germania è stimato alll’1,75% del Pil nel 2025, con una riduzione rispetto agli anni precedenti grazie a misure fiscali e stabilizzazione della spesa pubblica. Quello della Francia al 5% del Pil, con un piano di consolidamento fiscale che include tagli alla spesa e aumenti delle tasse. Questo, al netto della previsione sul debito pubblico che dovrebbe raggiungere il 114,7% del Pil. Per l’Italia il deficit è previsto al 3,4% del Pil, con una riduzione significativa rispetto agli anni precedenti. Per il Giappone siamo a circa l’1,1% del Pil. Ora, deficit e disavanzo pubblico Usa sono esattamente il centro di tutta questa vicenda. Cerchiamo di capire la situazione della finanza federale americana e cosa può essersi aggirato nella testa di chi ha generato la “strategia” dei dazi dell’Amministratore Trump.
Negli ultimi anni, la spesa pubblica è cresciuta in modo significativo, in particolare, in ragione di voci di Bilancio come la previdenza sociale e i sussidi per disoccupati e veterani (insieme a difesa e interessi sul debito), che rappresentano circa il 66% della spesa complessiva. E che Trump sta cercando di tagliare selvaggiamente: a questo, di fatto, serve il famigerato Dipartimento per l’Efficienza del Governo guidato da Elon Musk. A questi elementi si sommano le politiche fiscali degli ultimi decenni, a partire dalle riduzioni delle aliquote per i più ricchi e le imprese – attuate in particolare sotto le Amministrazioni Bush e Trump 1 – che hanno fortemente ridotto le entrate. Sul piano strutturale, gli Stati Uniti registrano un deficit di bilancio quasi ogni anno da decenni, causa di un debito pubblico crescente.
Sommiamo questi elementi e scopriamo quella che è, probabilmente, la brillantissima idea alla base dei dazi di Trump: far pagare il debito pubblico ai consumatori americani, fingendo che lo paghino i Paesi che esportano negli Usa. Con buona pace degli elettori che hanno creduto alla favola del Make America Great Again.
In poche settimane a diventare davvero grandi sono state l’incertezza, le previsioni sul deficit, la sfiducia dei partner in un Paese che sta incenerendo allegramente la propria credibilità. Ora la paura è la merce più globalizzata del mondo. Un bel risultato. In attesa della prossima alzata d’ingegno del presidente e della sua bizzarra brigata.